Cultura Pozzallo

Michele Giardina, un uomo di borgata, la prefazione di Attilio Sigona

Qui di seguito la prefazione del prof. Attilio Sigona al nuovo romanzo di Michele Giardina, “Un uomo di borgata”, edito da Prova d’Autore di Catania

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Pozzallo - “Un uomo di borgata’ -  scrive l’ex dirigente scolastico dell’Istituto Superiore “Giorgio La Pira” di Pozzallo - rappresenta di certo una svolta nella produzione letteraria del giornalista-scrittore pozzallese.

Il romanzo è affascinante; si legge tutto d’un fiato, ti prende, ti commuove, ti fa piangere, ti delizia di sensazioni e sentimenti provati moltissime volte nella tua vita. La costruzione è attuale, moderna; intreccia vicende e vicissitudini reali, del quotidiano. Una magica registrazione della realtà, con nomi di personaggi della cronaca e della politica, nomi veri di mezzi di trasporto, di aeroporti, di luoghi, di società operative, di feste e cibi legati alle tradizioni locali. La sottolineatura del realismo è d’obbligo perché appartiene alla nostra natura di meridionali, di siciliani; siamo tutti verghiani, sinceri osservatori del vero quando narriamo ed estrinsechiamo pensiero ed esperienza di vita, senza infingimenti, sena ipocrisie, cogliendo dalla realtà la “summa”della nostra esperienza umana e intellettiva.

Parlavo di un intreccio mirabile, perché il filo conduttore della storia è la ricchissima umanità di più protagonisti. Nella dovizie di umanità si rincorrono personaggi diversi, i due naufraghi di colore; una famiglia rovinata dal tradimento della moglie e dalla droga che uccide il figlio; un galantuomo che fa del suo lavoro la direzione certa della vita, dell’amicizia e degli affetti familiari, la meta continua per non essere mai solo; un donatore spontaneo e profondamente grato per tutta la vita; un medico-amico che umanizza il rapporto medico-paziente come è tipico del nostro mondo meridionale. I personaggi si incontrano per umanità e nella loro umanità.

Chi non ha cuore, sentimenti, emozioni non partecipa del banchetto letterario proposto da Michele Giardina, è fuori dalla vicenda, fuori dalla storia, fuori dall’esistenza. Chi è senza umanità, è come se non esistesse.

Ciò che resta, tuttavia, particolarmente nuovo ed eccezionale in questo lavoro, è il ricorso alla funzione classica del coro greco delle tragedie, utilizzata in un romanzo. La tragedia greca inserisce, nel filo conduttore dell’evento catastrofico, l’intervento del coro che ha una funzione ben precisa: esprimere ed interpretare i sentimenti del poeta tragico, manifestare la sua filosofia di vita, ma anche i sentimenti del popolo, degli spettatori, per farli sentire partecipi della vicenda, quasi inseriti direttamente nella storia che si sta rappresentando. Nel coro greco, dunque, poeta-autore e popolo-spettatore-lettore continuamente si inseriscono per esprimere il proprio pensiero, i propri sentimenti, le proprie sensazioni.

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Michele Giardina, rigorosamente e correttamente, applica in questo suo romanzo la tecnica del coro greco. Ogni evento, ogni passaggio dalla storia narrata è intercalato dalla filosofia che sottende la storia stessa. Non c’è evento umano che non abbia una sua “ratio” e questa viene continuamente spiegata, illustrata, motivata.

E’ come se, al termine di ogni passo della vicenda, un grosso riflettore ti faccia rivedere il narrato con una luce più forte, più chiara, spiegandoti le motivazioni dell’accaduto, per cui ogni brano della narrazione viene come rivissuto, dopo la rivelazione della trama, con occhio critico e filosofico, con sottolineature talora etiche talora morali, che non turbano mai l’equilibrio del romanzo, anzi giovano a motivarne la lettura, ad incentivarne l’ulteriore prosieguo; spesso costituiscono una pausa opportuna rispetto all’incalzare degli eventi che fatalmente spingono verso la fine della narrazione.

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L’effetto ed il risultato sono strabilianti in quanto l’intreccio non è mai turbato dalla riflessione, anzi la riflessione penetra nell’intreccio e ne fa parte integrante. Si arriva al paradosso che non si accetterebbe il semplice racconto senza il commento del narratore, senza quelle spiegazioni che l’autore offre al lettore per capire fino in fondo il narrato.

Questa è arte, cui si aggiunge l’usuale incisività formale graffiante dello scrivere, con alternanza di periodi ellettici del predicato a periodi di tutti predicati.

Lapidarietà che elimina ogni cosa superflua per pervenire alla narrazione ora con sequenza esclusiva di aggettivi, ora con incalzante serie di verbi.

“Lapidarietà” sottolineo perché ciò che è scritto sulla pietra o sul bronzo è destinato a restare nel tempo, superandone i limiti, con la forza contenutistica ( aere perennius) della medesima pietra e bronzo su cui sono tracciate le parole.

Michele Giardina con il suo stile scrive come incisore lapidario, una “concinnitas” da storico tacitiano che dà forza ulteriore ai contenuti.

Arte è sinonimo di personalità, inventiva, cuore, intelletto. Doti che non sono mai mancate a Michele Giardina e che sono profuse ad iosa nel romanzo “Un uomo di borgata”, che non è l’uomo qualunque o “qualunquemente” vissuto, ma ogni uomo che abbia saputo vivere contornato di valori profondi: onestà, amore, dedizione, generosità, fede, lavoro, rispetto degli altri, correttezza.

“Un uomo di borgata” diventa così l’epopea della vita vissuta bene perché arricchita dei valori che rendono umana la persona, protagonisti i personaggi comuni.

Il retaggio migliore che ogni uomo può lasciare di sé è proprio foscolianamente una “eredità di affetti”, che gli consente di sopravvivere anche alla morte biologica. La morte così diventa epopea della vita vissuta da “vir”, da vero uomo.


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