Economia Ragusa

Made in Italy e modello Ragusa, economie del silenzio

La macchina a sei ruote motrici

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Ragusa - Sono passati i tempi della grande industria di Stato e dei piccoli e grandi industriali privati che, bene o male, hanno scritto la storia dell’economia di Ragusa. In silenzio, e senza tanti clamori, quel vasto tessuto di imprese, dal 1970 fino a due lustri fa, creò un circuito economico, virtuoso, da far invidia anche alla Milano dei “cummenda” e al Nord est delle fabbrichette e che, in molti, tra gli addetti ai lavori, indicarono come “modello Ragusa”.
In principio, dunque, ci fu il silenzio degli imprenditori e un’economia territoriale che faceva mozzicare il labbro a tutti, tanta era l’invidia delle altre regioni e province italiane nei confronti degli Iblei. La disoccupazione? Inesistente! Attestata, negli ultimi trent’anni, su un intervallo medio compreso tra il 4 e il 10 per cento. Così recitano gli annali.
Oggi, invece, un giovane ragusano su due non riesce a trovare un impiego; la crisi ha messo a soqquadro tutto: le attività economiche che sono riuscite a resistere e a dare continuità alle loro produzioni, ma anche quelle nuove e appena nate, riescono a soddisfare la domanda del mercato del lavoro per un misero 30- 40%. Il modello Ragusa, quello solido, affidabile, inamovibile, ammirato da tutti e da imitare, che dava occupazione e sviluppo è, dunque, finito.
Quel ciclo storico, è chiuso. Ma i ragusani non sono rimasti certamente a guardare, perciò, di modello economico, ne hanno inventato e messo in circolo subito un altro. Come dire, morto un Papa, a Ragusa, ci si dà subito da fare, non si aspetta l’apertura del Conclave.
Oggi, l’industria ragusana, contemporanea, e quando parliamo d’industria ci riferiamo a ogni attività economica che ha a che fare non solo con produzione di beni ma anche con operazioni strettamente commerciali o di servizio, vive di pubblicità.
Ciascun imprenditore cerca di ritagliarsi un piccolo spazio nella rete della comunicazione globale per reclamizzare la buona ma anche la propria cattiva sorte.
Il destino di un’impresa è, attualmente, legato con sinergia all’avviso. Ieri, il silenzio sulle gesta eroiche degli imprenditori che hanno fatto grande Ragusa, oggi, invece la propaganda anche sui fallimenti a catena e sulle disgrazie industriali. Divulgare, partecipare. Sono i verbi della new economy. Ogni attimo aziendale dev’essere condiviso col pubblico. Un’economia, reale o meno, che poggia le proprie reni sullo sharing.
Il neo industriale promuove l’investimento e divulga pure i propri peccati. Di gola e di finanza. Anche i debiti delle neo fabbriche, i mutui contratti e da contrarre, i prestiti a lungo e senza tempo della neo industria vengono divulgati al pubblico. Anzi, devono essere popolarizzati. Tutti devono sapere. E il tutto diviene immagine e allegoria dell’industria e dell’economia del territorio. Della neo industria, della neo economia, però. Un bel salto nel buio della retorica. Non c’è altro da aggiungere. Ma la retorica da sola non basta a spiegare la nuova grammatica dell’impresa, della neo-impresa, quasi obbligata a far passare dalle maglie larghe della comunicazione, dal megafono del comunicato stampa, dalla movida dei convegni, ogni respiro della propria economia. Obbligata da chi, poi, non si sa. Lo sharing delle notizie, la condivisione delle informazioni, sarà pure la condanna inferta dalla modernità. Ma è uno strazio, per chi legge, consentiteci.
Sarebbe stato impensabile, e improponibile dagli esperti di comunicazione di allora, che pure esistevano, stiamo parlando di trenta o quaranta anni fa, che la famiglia Barilla, quella della pasta, tanto per fare un esempio di grandi industriali, affidasse a un comunicato stampa l’esposizione bancaria e l’enumerazione ragionieristica del debito della propria società. Meglio la morte! I panni sporchi, quelli finanziari, in famiglia si dovevano lavare. E così facevano. Fin quando e per quanto potevano. Le cose non dette, specie quelle infelici, facilitavano l’immaginazione del popolo, eccitavano il mercato: “a ‘nvedi Barilla che macchinona s’è comprata!” Se lo può permettere, rispondeva il popolo, in coro. E tutti, sul finire degli anni 70, compravano pasta e pane Barilla nei primi super market; mentre Barilla, la società, in rigoroso silenzio veniva acquistata dagli americani.
Col silenzio si scatenavano potenzialità inaudite per le imprese. E spesso, il mercato non ne sapeva nulla dei loro affari. Il made in Italy e il modello Ragusa, in fondo, sono nati proprio così. In silenzio.
Oggi, invece, i grandi ma soprattutto i piccoli della neo industria, fanno a gara per dare in pasto all’opinione pubblica i tanti vizi e le poche virtù delle loro società.
Accade al Nord così come al Sud.
Ci sono aziende di Milano, ma quelle di Ragusa manco scherzano, che divulgano, inutilmente, le gioie piccole e piccolissime che arrivano dal mercato. E passi per le gioie.
Altre, invece, che assoldano, addirittura, grandi istituti di comunicazione per pubblicizzare le proprie sofferenze societarie, diramando, inopportunamente, all'Urbe e all'Orbe, i propri debiti e anche il piano di rate per l’ammortamento dei propri mutui: “a ‘nvedi che macchinona s’è comprata Tizio, l’industriale!” Tutte a cambiali, risponde in coro il popolo, Tizio l’ha pure scritto sui giornali!
La neo economia, come già detto, è vittima dello sharing, della condivisione delle notizie. Chi impone la regola è la modernità. La storia aziendale è così archiviata in container di memoria che seguono solo un percorso pitagorico -chi fa comunicazione tutto ciò dovrebbe recitarlo a voce alta ogni sera prima delle preghiere della notte- che, a noi lettori, non ci fa dimenticare, purificare, filtrare, poiché tutto già raccontato, documentato, spiegato, appreso. Coi comunicati dati in pasto alla stampa, appunto.

Nella foto, una Mercedes classe G a sei ruote motrici


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