Catania - Lucido come sempre.
Paolo Mieli, già direttore -e per ben due volte- del Corriere della Sera, ha rilasciato una bella intervista a Mario Barresi su La Sicilia.
Gli ultimi mesi sono stati quelli della caduta dei simboli dell’antimafia, travolti dagli scandali, chiede Barresi.
«Io me li sono studiati bene, questi casi: saranno una ventina. Hanno in comune che tutti facevano parte di associazioni antimafia, antiracket, paladini di legalità -risponde Mieli-. E già questo dona un che di ridicolo: oggi in Sicilia ammantarsi nella bandiera antimafia è diventata una cosa gratuita. I capi mafiosi stessi consigliano agli affiliati di farne parte! C’è una retorica dell’antimafia nei riguardi della quale c’è stata una deresponsabilizzazione assoluta. Si è passati dai grandi proclami di Ivan Lo Bello, che nel 2007 ci emozionarono, a casi come quello di Montante, che nel silenzio e nell’indifferenza nazionale, si sono consumati. È una superficialità, un’omertà continentale: colpa dei grandi dirigenti di Confindustria, ma anche della stampa. Il terzo elemento è che questi episodi sono ridicoli. C’è un’immagine di collusioni da straccioni, di piccoli inghippi. Non c’è più la strage di viale Lazio, che ti dava l’impressione di una partita importante, di una mafia forte e di interessi miliardari. Oggi c’è una mafia ridotta a una dimensione di accattonaggio dei soggetti corrotti».
Ma, da storico, secondo lei a che punto è la guerra vera alla mafia?
«Contro la mafia i risultati ci sono stati. Ma nessuna guerra, come insegna la storia, ha vittorie o sconfitte definitive. Tutto si rimette in movimento».
Così come il giudizio sulle bandiere dell’antimafia...
«Quelle bandiere non hanno significato. Perché s’è scoperto che dentro quelle bandiere c’è chiunque. Se io oggi volessi fare del malaffare in Sicilia, mi iscriverei a un circolo AddioPizzo, all’associazione Libera. Non hanno valore, sono chiacchiere. Quando Lo Bello lanciò la stagione antimafia di Confindustria non fece un codice che espelleva chi pagava il pizzo? Che fine ha fatto quel codice? Nessuno ha vigilato. A Siracusa c’è un viavai di presidenti indagati o costretti alle dimissioni. Sono cose de minimis. Nessuno è Lima o Liggio... ».
E non è meglio che non ci siano più?
«No, questo è più grave. È la distrazione di un Paese che considera queste cose folklore. È il razzismo di un che ride della Sicilia. Che paga un prezzo altissimo: nessuno viene a fare impresa da voi. La cosa pubblica non funziona e per di più è pure ridicola. Un mix esiziale, grave quanto nell’era della mafia stragista. Poi c’è stato un uso disinvolto dei reati a sfondo mafioso. Dopo l’appello di Lo Bello si sono fatti tutti gli errori possibili: non si è vigilato e si sono fatti passi indietro, ma poi si è esteso il reato a sfondo mafioso anche a chi passava col rosso al semaforo... Non si può amministrare in allegria, ci vuole rigore. Perché altrimenti il punto d’arrivo è peggio del punto di partenza».