<<Tri tri tri / fru fru fru / uhi uhi uhi/ ihu ihu ihu / Il poeta si diverte / pazza- mente / smisuratamente / Non lo state a insolentire / lasciatelo divertire / poveretto / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto. / Cucù rurù / rurù cucù / cuccurucù / Cosa sono queste indecenze? Queste stro-fe bisbetiche? Licenze, licenze / licenze poetiche. / Sono la mia passione / Farafarafarafa / Tarataratarata / Paraparaparapa / Laralaralarala!». Se questa poesia di Aldo Palazzeschi (“Lasciatemi divertire”) è il manifesto della poetica senza impegno, della poetica sine cura, senza finalità di indottrinamento sociale o morale, ma solo psicagogiche, lasciatemi divertire potrebbe essere il manifesto politico di Matteo Renzi, della sua azione di governo, solo sostituendo poetico con politico e poetiche con politiche.
Per il suo soggiorno americano, però, Matteo ha pensato che qualcosa di più serio andava fatto, non foss’altro per legittimare qualche complimento da parte di Barack, qualche bell’aggettivo che, comunque, per circostanza e bon ton da protocollo, in simili casi non si nega mai all’ospite in visita.
Il presidente americano è stato, però, quanto mai parsimonioso e, tra gli innumerevoli prestampati all’uopo, ha scelto il più neutro breve e insipido. Renzi? «Giovane e promettente leader europeo».
Senza scomodare una filologica analisi testuale, l’anagrafe di Renzi rimanda realisticamente, ma ancora per poco, alla giovinezza, o meglio a una prolunga di giovinezza; quanto al «promettente», l’aggettivo politicamente pesa quanto nel gioco della briscola pesa il due di bastoni! Tenuto conto del fatto che ormai è con le valige in mano, il presidente Obama avrebbe potuto un pochino eccedere con il suo ospite italiano, anche solo in fantasia, eppure non lo ha fatto.
Il nostro presidente del governo Renzi pensando che, per la sua visita in America, non avrebbe potuto presentarsi con i suoi tri tri tri fru fru fru bubububu fufufufu cuccurucù, come invece può benissimo in Italia, si è presentato con il Meglio d’Italia, la sua Cultura. Certo ha dovuto arrangiarsi, accontentarsi di uomini e donne in carne e ossa, mentre se solo avesse impunemente potuto, assecondando la sua vocazione alla megalomania (Stretto di Messina, Metropolitana a Ragusa, 30.000 immissioni in ruolo docente solo in Sicilia etc etc etc), avrebbe optato per il trasporto in America del Colosseo medesimo, della basilica di Santa Maria Novella, della Pietà di Michelangelo, del tempio della Concordia , del tempio di Hera a Selinunte, d’una buona metà degli scavi di Pompei e dell’intera Morgantina nell’ennese. Che figurone sbarcare dal presidente Obama con queste meraviglie e, soprattutto, in un’America dove il massimo artistico è rappresentato da una statuetta della Libertà di soli 93 metri d’altezza, basamento compreso!
Non potendo traslocare in America la Sicilia greca, la Roma latina e la Firenze rinascimentale, ha traslocato due premi Oscar, Benigni e Sorrentino, una bellissima campionessa paralimpica, Bebe Vio, premio “oscar” al coraggio, uno scienziato di grandissimo valore, Fabiola Gianotti, cui si deve la scoperta del bosone di Higgs, di cui abbiamo scritto in occasione della sua nomina a direttore del Cern, la direttrice del dipartimento di Architettura e Design del Mona, Paola Antonelli, lo stilista Armani, l’isola di Lampedusa “oscar” per l’accoglienza ai migranti, nella persona del sindaco Nicolini.
La Cultura, lo sosteniamo da sempre, è il logo dell’Italia in tutto il mondo. Una Cultura, le cui tessere, Parola scritta e filmica, Parola sociale, Parola Sportiva, Parola scientifica, Parola artistica, Parola di Diritto, compongono un mosaico senza pari.
Dovendo scegliere in un contesto, l’attuale, povero d’Eccellenze, Renzi, non ha avuto grandi esitazioni nell’individuare quei pochi compagni di viaggio che potessero molto bene intonacare una facciata nazionale non poco compromessa sotto tanti aspetti.
Cosa ben diversa sarebbe stata invece se, vissuto in tempi aurei per l’Eccellenza e il Genio, pensiamo al Rinascimento o all’Ottocento, aves- se dovuto scegliere tra un Botticelli, un Michelangelo, un Leonardo, un Machiavelli, un Ariosto, o un Manzoni, un Leopardi, un Foscolo, un Verdi, un Rossini, un Puccini.
La Sicilia greca fu terra fertilissima di Talenti, umanistici artistici scientifici. Empedocle d’Agrigento, filosofo, taumaturgo, fisico, poeta «il fisico Empedocle scrisse un poema eccellente» (Cicerone, De Oratore), o Archestrato di Gela, poeta di un’epica gastronomica “I piaceri della Mensa” (Hedypatheia), da cui trasse ispirazione il poeta latino Ennio per i suoi Hedyphagetica. Quando Archestrato scrive la sua opera, Gela e, in generale, la Sicilia, vivevano un momento felice per l’Arte e la Cultura. Già da un secolo si coltivavano il mimo, la poesia arguta e faceta, generi in perfetta armonia con la genetica inesauribile vivacità e libido “teatrandi” dei siciliani. Si coltivava anche la parodia, all’insegna della quale Archestrato compone, dopo travagliata gestazione, il suo vademecum delle squisitezze, i suoi ineccepibili comandamenti della buona tavola, dando pregevole locus letterario (un Poema in esametri!) a quel tema gastronomico che invece era sistematicamente bandito, snobbato, dalla sufficienza e dall’alterigia dalla Letteratura blasonata.
A Megara, sempre in Sicilia, era nato il poeta elegiaco Teognide, forse contemporaneo di Solone e Focilide, “O Cirno a questi miei versi un sigillo sia posto... ognuno dirà: di Teognide megarese sono questi versi”.
Poeta dalla poesia vigorosa appassionata civile, Teognide denunziò vizi, abusi, ingiustizie, magagne del suo tempo. Ma più dei suoi versi gnomici, indimenticabili sono i versi rivolti a Cirno, giovinetto amatissimo dal poeta, nucleo del Corpus Theognideum. Versi che denunciano un cocente sdegno verso un presente, corrotto insanabile irredimibile: “Cirno, la città è ancora la stessa, ma altro è il popolo: quelli che prima non conoscevano né usanze né leggi, ma intorno ai fianchi logoravano pelli di capra, quelli che fuori dalla città pascolavano come cervi, ora son essi i capi; e quelli che prima erano nobili ora non contano più...”.
Amò Cirno il siculo poeta Teognide e volle formarne la crescita in un contesto politico sempre più difficile e amorale: «Cirno, perché ti voglio bene, quello che io stesso da fanciullo appresi ti insegnerò. Sii saggio e non cercare onori o lodi o ricchezze con opere turpi e inique. Tienilo bene in mente: non accompagnarti ai malvagi, va’ sempre coi buoni, con loro bevi e mangia, con loro siedi, a loro sii amico, perché dai buoi cose buone apprenderai, se invece ti unisci ai malvagi, perderai anche il senno”.
Pioniere dei cervelli in fuga già nel III a.C. fu Teocrito di Siracusa, poeta di idilli mimi ed epigrammi, che invano sperò di restare nella sua magica terra di Sicilia, invano confidando nel mecenatismo del tiranno Gerone II, cui pure dedicò “Le Cariti”. Ma solo da emigrato ebbe la sua fortuna alla corte del sovrano Tolomeo II Filadelfo, in Egitto.
Anche in terra straniera gli è caro il Vulcano, le sue braci di fuoco che nutrono passioni di fuoco. Care gli sono le sue furiose sanguigne erinni, né mai dimentica la Sicilia, seppur lontano, contro sua voglia , come oggi la nostra migliore gioventù!
Non ha altro che il Canto per placare la feroce nostalgia della sua terra, del suo mare, dei suoi sbuffi di luce al tramonto, delle sue mareggiate candide come neve. Il Ciclope Polifemo, che pascola le sue greggi sul Vulcano, follemente ama, non riamato, la bella ninfetta Galatea. Pazzo d’amore a tal punto che non lo preoccupa affatto il suo unico mostruoso occhio “Io lo so, graziosa fanciulla, per quale ragione tu scappi / perché folto un sopracciglio si stende per tutta la fronte / da un orecchio all’altro, unico, enorme / e sotto c’è l’occhio, e largo è il naso sul labbro” (Teocrito, idillio XI, Il Ciclope).
L’ama perdutamente il Ciclope, per lei prepara candidi formaggi il gigante dal cuore tenero e adolescente. Ama e soffre “O bianca Galatea, perché respingi chi t’ama / tu bianca più della giuncata a vedersi, più tenera d’un agnello / più superba d’una giovenca, più turgida dell’uva acerba?” (ibidem). Vive tra formaggi giovenche capre e agnelli il gigante Ciclope goffo, disarmante, dal cuore tenero, e per le sue similitudini non ha altro cui ispirarsi.
“Tu questi luoghi frequenti quando il dolce sonno mi tiene / e subito te ne vai quando il dolce sonno mi lascia / e fuggi come la pecora che ha visto il grigio lupo / M’innamorai di te, fanciulla, quando dapprima tu venisti con mia madre a cogliere giacinti / sul monte e io vi guardavo nel cammino / E cessar di guardarti non posso da allora: e tu non ti curi di me affatto” (ibidem).
Per lei il Ciclope, irsuto e innamorato, è disposto a tutto, persino a rinunciare al suo unico occhio e vivere per sempre al buio, perché è lei, Galatea, la sua luce “da te sopporterei che mi bruciassi l’anima, e l’unico occhio di cui nulla è a me più caro. Ah che sfortuna che mia madre non mi abbia generato con le branchie! Mi tufferei per venire da te, e ti bacerei la mano, se mi rifiuti la bocca, e gigli bianchi ti porterei e teneri papaveri dai rossi petali” (ibidem).
Terra e Mare, l’una pondus, l’altro liquore, sono creature inconciliabili tra loro. È ostile il Mare al Ciclope, che non può avventurarsi nei suoi fondali e là vivere con la bella Galatea che vi dimora. A questo punto è distruttivo e dissacrante per la “Poesia” esporre le varie ipotesi, anche psicanalitiche, che sottendono alla contrapposizione, alla diatriba, dei due elementi, Terra e Mare. Scegliamo dunque di salvaguardare il Canto, senza ispezioni, senza autopsie filologiche o d’altra natura. Scegliamo di salvaguardare il cuore innamorato d’un Ciclope goffo, deluso dalla sua stessa madre che non gli ha fatto da paraninfo: “Mia madre soltanto mi fa torto, e con lei me la prendo / perché mai una volta ti ha detto una buona parola per me / eppure vede che giorno dopo giorno mi consumo” (ibidem). Il Canto è l’unica salvezza, l’unico conforto per la sua pena d’amore, assieme alla certezza che altre ragazze lo trovino desiderabile: “Molte ragazze m’invitano a giocare con loro la notte / e ridono tutte quando le ascolto. / È chiaro che sulla terra anch’io, a quanto pare, sono qualcuno” (ibidem).
Bububu / fufufufu / friù / friù. Se d’un qualunque nesso / son prive / perché le scrive / quel fesso? (Lasciatemi divertire). Ce lo chiediamo ininterrottamente anche noi, da quel 22 febbraio 2014, giorno in cui l’Italia ha avuto in Matteo Renzi il presidente, non eletto, del 63° governo della Repubblica.