Scicli - Mio padre, classe di ferro 1898, amava raccontare un aneddoto (che a sua volta aveva raccolto da mio nonno) sulla vita di Francesco Mormina Penna. Non so comunque quanto ci sia di vero in esso.
Il barone Francesco Mormina Penna fu una figura leggendaria nel provinciale panorama culturale ibleo.
Amico di Mazzini, pecora nera dell’aristocrazia locale, fu sempre guardato con sospetto dall’intellighenzia sciclitana, sua contemporanea. Questa lo considerava, infatti, un poco di buono, un inconcludente, un perditempo che ben volentieri inseguiva valori di uguaglianza sociale, un rivoluzionario che, tradendo le proprie origini borghesi, agitava le coscienze dei villani per organizzarle e istruirle nel “Fascio dei Lavoratori” da lui fondato.
Mio nonno fu, a quanto raccontava mio padre, un suo fedelissimo seguace.
Ebbene tutto questo, peraltro molto documentato e vero, nulla ha a che fare con la storia che qui narro.
Quando capitava di passare con mio padre davanti a una piccola masseria di campagna, lui puntualmente me la indicava come “la casa di Pitanna”.
-Chi era Pitanna? - Gli chiesi la prima volta che sentii pronunciare questo nome.
“Non conosco chi davvero sia stato.” Rispose lui. “Pitanna è solo una ‘ngiurja, cioè un nomignolo affibbiatogli da qualcuno, con il quale in paese questo tizio era conosciuto.”
“Pitanna era un porcaio. Sbarcava a stento il lunario, custodendo una mandria di porci.” Continuò mio padre nel suo racconto.
“Abitava quasi tutto l’anno in un casolare delle terre del barone Mormina, in una località sinistra tristemente nota, ai tempi del brigantaggio, per le frequenti rapine. Questo luogo sperduto era un posto di frontiera, zona paludosa nella quale la malaria mieteva vittime di notte e di giorno. Abitarlo era come essere condannati al confino. L’acqua dell’Irminio, prima di disperdersi nella valle a monte di Donnalucata e di aprirsi in un lussureggiante estuario nella sua corsa verso il mare, faceva funzionare là gli ingranaggi di un vecchio mulino.
Pitanna, sui cinquant’anni, aveva un pancione più grosso di una botte. Faceva fatica a reggerlo su due gambette esili. Di statura bassa, una barba di giorni, ispida, gli sporcava le gote accese dalla febbre terzana che lo accompagnava per molti giorni all’anno. Era rozzo, un po’ balbuziente, sporco per una guerra antica dichiarata al sapone e all’acqua. Dalla sua giovinezza gli unici compagni erano stati i porci e, alla fine, si era anche affezionato a essi.
Li faceva accoppiare, faceva figliare le troie, li portava al fiume perché potessero rotolarsi nella fanghiglia delle sue rive.
Durante le afe estive, quando il vento diventava una merce rara, Pitanna si assopiva sotto un carrubo mentre i maiali sguazzavano pigramente nell’acqua fresca, scaturita dalle sorgenti di Mussillo non lontane.
Qualcuno gli aveva insegnato a tagliare la canna, a confezionare zufoli che suonava da virtuoso, ultimo Pan in quella solitudine oziosa.
Fu sotto un carrubo che un giorno lo trovò il barone.
-Vossignuria cumannassi! (1) - Balbettò Pitanna, appena i suoi occhi febbricitanti scorsero la sagoma di Francesco Mormina Penna.
-Sei grande, quasi vecchio. - Gli si rivolse il barone. -Tutta la vita tua è trascorsa qui e non hai mai pensato a una moglie, a una donna.-
Pitanna alzò le spalle come per dire che la cosa non gli interessava. Stava molto bene in compagnia dei suoi animali.
-Che ne dici -riprese il barone- se ti cerco una brava compagna io, prima che diventi decrepito, visto che hai un’età ancora buona per accasarti e fare figli?-
Pitanna rifece di nuovo spallucce, prese lo zufolo e cominciò a suonare.
Il barone aspettava una risposta che la musica non poteva dargli. Si spazientì.
-Oh! Dico a te! - Lo redarguì, alzando la voce.
Pitanna interruppe il suo concerto.
-Vossignuria cumannassi! (1) -Ripeté e alzò lo sguardo sul barone come a volergli dire: ma chi te lo fa fare?
Il suo vocabolario non era fatto di molte parole.
-Modu para casu cui forra? (2) - Chiese, dopo una lunga pausa di silenzio, più per fargli piacere.
Il barone riprese subito quota.
-Ho sotto mano una brava giovane. Timorata, onesta. Io voglio premiarti per la tua fedeltà incondizionata. Se accetti, saprò ricompensarti.-
-Modu para casu accittassi, a e purci cu ‘ci bara? (3) - Domandò con una sollecitudine accorata nella voce.
-Puoi venire qua se vuoi e quando vuoi. - Lo tranquillizzò il barone. - Il paese non è poi così lontano. Ti do una damatrice (4), degli aiutanti. Con il mio regalo di nozze potrai comprare una casa decente nella quale abitare con tua moglie e metter su famiglia. Cominci a farti vecchio, Pitanna, e so che non sei eterno, che la malaria ti fiacca. Uno devoto come te dove lo trovo io? Son tempi strani, questi. Anzi, sai che ti dico? Domani verrai in paese. Ti faccio visitare dal mio medico che ti curerà...-
-Modu para casu, vossia mi runa macàri piècuri e crapi pi fari furmaggi e ricotta? (5)- Chiese Pitanna, approfittando della benevolenza del barone.
-Tutto quello che vuoi. - Lo rassicurò Francesco Mormina Penna. E aggiunse: - Ti mando parecchi uomini che comanderai come un vero massaro e così sarai riverito e temuto nel mio nome.-
Il giorno dopo Pitanna bussò di primo mattino al portone del palazzo del barone. Si era alzato all’alba, aveva lasciato le provviste ai porci, era saltato in groppa a un asino e, lemme lemme, era partito per il paese.
Puzzava come una capra.
Il barone lo accolse con molta benevolenza in cima a un grande scalone. Diede ordine a due servi di fargli fare un bagno, di rivestirlo con abiti decenti. Incaricò, in seguito, un altro servo di andare a chiamare il suo medico personale.
Dopo qualche ora Pitanna era irriconoscibile. Profumato e sbarbato, sembrava un altro, molto più giovane, quasi attraente. Il medico lo visitò, gli prescrisse del chinino, lo obbligò a trattenersi in paese per tutto il tempo della cura.
-Modu para casu -domandò l’uomo con accento disperato al barone, dopo avere ascoltato le parole del dottore -i puorci cui i sfama e i porta a pàsciri? (6)-
-Non ti preoccupare - lo tranquillizzò Francesco Mormina Penna - manderò dei ragazzi in tua vece. -E così fu.
La sera il barone lo invitò a cenare con lui.
Prima di andare a tavola, il barone aveva invitato nel suo studio ronna Vannuzza per esporle il suo progetto.
Ronna Vannuzza era una bellissima popolana. Il barone la aveva adocchiata un giorno mentre ritornava dal lavatoio con una cesta di panni puliti sotto il braccio, già ben sbattuti sulle pietre e strizzati per poterli stendere al sole.
Lei, in passato, aveva evitato a lungo le sue insidie ma il barone era assolutamente intenzionato a farla sua e la donna, alla fine, gli cedette.
Dopo mesi di grande passione e d’amplessi, la donna da qualche giorno, purtroppo, non accusava più il ciclo mestruale. Informò, dunque, del fatto il barone, insinuando il sospetto di una gravidanza. A questo punto bisognava trovare subito una soluzione onorevole del problema per non dare alle malelingue in paese l’occasione che da tempo cercavano. E la soluzione era stata proprio Pitanna.
Alla fine della cena, alla quale era stata invitata anche la amante, il barone chiese con molta amabilità a Pitanna.
-Ti piace Ronna Vannuzza?-
Il porcaio non credeva più ai suoi occhi. Si sentiva prigioniero di un incantesimo.
-Modu para casu, è chiù bedda ro suli e ri la luna...- esclamó gongolando (7).
Dopo qualche settimana Pitanna sposò Ronna Vannuzza già leggermente ingrassata, perfettamente riconoscibile nella sua gravidanza anche da un tonto o da uno sprovveduto.
Il matrimonio fu celebrato nella Chiesa del Carmine, al termine della messa dell’alba.
“Per non dare spago ai curiosi e alle invidiose...” aveva così giustificato questa strana richiesta la donna al suo futuro marito.
Nel primo pomeriggio il rito fu ripetuto davanti al sindaco, in municipio, come usava e prescriveva la legge.
Il barone regalò alla coppia una buona somma di denaro con la quale Pitanna comprò una casa alla periferia del paese. Nella masseria del fiume arrivarono, in verità, dei ragazzi che si presero cura della mandria dei porci, di un bel gregge di pecore e capre, di un buon numero di vacche e qualche toro, animali che da sempre avevano eccitato l’immaginazione di Pitanna.
Lui, non più lacero e sporco, arrivava dal paese quasi ogni giorno, dopo il primo sole, con la damatrice del barone a soprintendere ai vari lavori.
Nella nuova casa, nei bassi, Pitanna aveva ricavato un ambiente con stalla e solaio. Vi ospitava la damatrice, la paglia e la giumenta.
Con la scusa della sua convalescenza, Ronna Vannuzza gli suggerì di dormire nella stalla.
Pitanna provò a muovere qualche obiezione, alla fine accondiscese. La prima notte di nozze, la passò in bianco, infatti. E così pure tante altre.
Il tempo, però, giocava contro il barone e la sua gravida amante.
Qualcuno pensò pure di smaliziare il porcaio e certamente ci riuscì perché presto Pitanna, a suon di botte, rivendicò il suo diritto coniugale.
Ronna Vannuzza chiuse gli occhi e si turò il naso. Per amore del barone, cominciò a concedersi anche al suo vero marito.
A Pitanna, comunque, tutto questo non bastava.
Con i pecorai, al fiume, si era fatto arrogante. Col barone, in paese, sempre più esigente e insolente.
A far traboccare il vaso fu un’insolita goccia aggiunta scioccamente dal porcaio.
Un pittore locale, infatti, dipingeva in quel periodo i soffitti dei saloni di alcuni palazzi nobiliari di Scicli. Lui andò a trovarlo un giorno e subito fu conquistato da una pittura nella quale un toro rapiva una splendida fanciulla. Il pittore raffigurava, in effetti, in essa il ratto di Europa, perpetrato da Giove sotto le forme di un toro.
Di fronte a quella scena mitologica, Pitanna non resse, pretese che il pittore andasse a casa sua e ne dipingesse là una copia.
-Modu para casu, propia accà ci vuogghiu a testa ri vacca cu dui belli corna... (7)- Disse il porcaio al pittore, commissionandogli il lavoro, mentre gli indicava la parete del pianerottolo in cima alla scala d’ingresso dove voleva che fosse eseguito il dipinto.
La peculiarità di questa richiesta fece subito il giro dei salotti del paese e molti furono i pettegolezzi che videro il barone protagonista di lazzi e sberleffi.
Francesco Mormina Penna convocò immediatamente Pitanna nel suo avito palazzo. Questa volta non fu così benevolo e arrendevole come nelle precedenti udienze. Lo investì furioso con grida e minacce.
Il giorno dopo, il pover’uomo ritornò al suo vecchio rifugio nel feudo del fiume.
I pecorai erano scomparsi.
Aprì le porte delle stalle e vide che anche le pecore e le vacche erano state portate via.
Gli erano rimasti solo i porci e gli zufoli di canna che nessuno aveva suonato durante la sua assenza.
Ne prese uno a caso e con esso produsse note strane ma molto ben conosciute da quegli animali.
La mandria capì, infatti, dalla musichetta che doveva avviarsi verso il fiume e così fece.
L’uomo, non appena arrivato alla sponda, si sdraiò sotto il solito carrubo, chiuse gli occhi e cadde in un sonno profondo dal quale nessuno più osò risvegliarlo, neanche il nuovo sole.”
(1) Vossignoria comandi!
(2) Modo para caso, antico spagnolismo = se per caso.
Chi sarebbe?
(3) Se per caso accettassi, ai porci chi baderebbe?
(4) Veicolo a trazione animale a due ruote, molto leggero ed elegante, usato dalla borghesia per spostarsi con facilità dal paese alla campagna.
(5) Per caso Vossignoria mi dà anche pecore e capre per fare formaggio e ricotta?
(6) Ma i porci chi li sfama e li porta al pascolo?
(7) Caspita! È più bella del sole e della luna!
(8) Motivo per cui proprio qui voglio che sia dipinta una bellissima testa di vacca con un bel paio di corna...
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