Scicli -Da piccolo ero insofferente a qualsiasi regola e, per questo, molto ribelle.-
Cominciò così mio padre il suo racconto. Non amava parlare di sé. Non l’aveva mai fatto prima. Alla fine della sua vita, dietro tante pressioni mie e insistenze, finalmente cominciava ad aprirsi.
Era nato quasi alla fine dell’Ottocento e questo particolare non trascurabile rendeva ancora più preziose le sue parole.
Era stato un autentico testimone di una Storia d’Italia che io avevo, invece, appreso dai libri.
-Mio padre, tuo nonno, -cominciò- non badava molto a me e mia madre era una santa donna che facilmente abbindolavo con mille bugie. -
Fece una pausa e mi guardò a lungo, come se volesse davvero raccogliere tutti i ricordi per confessarli.
-Sono nato in una modesta casa all’ombra del campanile della Chiesa della Consolazione, nell’antico quartiere di Montecampagna. Ero il più piccolo di tre fratelli ma senz’altro il più scaltro. La mia vita si svolgeva interamente tra il Piano Fidone e il sagrato della Chiesa della Consolazione.
Come ora, anche allora, ti parlo del 1908, i monelli si organizzavano in vere e proprie bande. Frequentavo il gruppo di mio fratello maggiore e, nonostante fossi il più piccolo di età, ero riuscito a diventarne il capo. Mi aveva aiutato a impormi una forza fisica non indifferente di cui mai ho saputo spiegare l’origine.
Curiosavo spesso con gli altri ragazzini nel cantiere del Municipio allora in costruzione. A ridosso delle sue impalcature organizzavamo vere e proprie azioni di guerra con lanci di pietre di diverso calibro, se eravamo attaccati da bande rivali.
Vincevo tutti a braccio di ferro e “filavo” per momenti interminabili sui bastioni del Torrente Santa Maria la Nova. -
-Che cosa facevi? - Chiesi subito incuriosito.
Lui abbozzò un sorriso.
-Sì, filavo. “Filare” -spiegò -era un gioco crudele. Consisteva nel porsi in posizione verticale a testa in giù sullo stretto parapetto del torrente. Come il filo di lana che scende diritto, perpendicolare durante l’azione della filatura. Chi durava di più si guadagnava l’ammirazione di tutti. Ed io duravo molto, molto.
La mattina mia madre mi metteva alcune noci e un pezzo di pane in un sacco e mi raccomandava di non perder tempo in giro e di andare dritto dritto a scuola.
Ma io non la ascoltavo, poverina. Spesso arrivavo in ritardo perché mi piaceva bighellonare per le stradine della città vecchia o, seduto sul parapetto del torrente, amavo ascoltare incantato il grave gracidare delle rane.
Il mio maestro, il maestro Burragato, era un uomo all’antica. La sua figura era imponente e severa. Ostentava una barba curata e lunga che quasi gli arrivava all’ombelico. Somigliava a un predicatore luterano.
Mi castigava spesso ed io lo odiavo. Una strana malattia gli procurava improvvisi stati di grande torpore durante i quali la classe si trasformava in una vera e propria trincea.
Quando però spiegava o era sveglio, guai a noi se non sentiva volare le mosche!
Per qualche mese frequentò la mia classe anche il figlio del barone Penna.
Lo accompagnava l’istitutrice. Impomatato, infiocchettato, aveva la pelle delicata e rosea come quella di una femminuccia. Lo sfottevamo per il suo vestitino prezioso di velluto blu sul quale spiccava un inamidato colletto bianco alla marinara.
Con noi e anche con il maestro era arrogante, prepotente, viziato. Io ero seduto sul banco dietro di lui. Il suo cestino era sempre pieno di biscotti, marmellate e dolciumi di ogni genere, roba che difficilmente divideva con noi. Nel profitto era un disastro, benché il povero maestro facesse di tutto per non darlo a intendere.
Fu durante uno dei suoi soliti attacchi di narcolessia che io misi a segno il mio piano.
Intinsi l’indice destro nel calamaio e, senza che il Penna se ne accorgesse, sul retro del suo bianco e inamidato colletto alla marinara scrissi a lettere grandi la parola “sceccu” (asino, nda). Gli altri compagnetti guardavano e ridevano. Quando il Penna si rese conto finalmente dello scherzo, fece succedere il finimondo. Piangeva come una gatta e urlava come un lupo. Il maestro si riebbe subito dal suo stato di torpore.
“Chi è stato?”. Domandò molto contrariato.
Nessuno rispose.
Il Penna tra le lacrime m’indicò come l’autore del misfatto e il suo compagno di banco non poté fare altro che confermare.
Il maestro si alzò dalla cattedra, lentamente si avvicinò e mi ordinò di mettere le mani sopra il piano di scrittura. Aveva una verga molto elastica che ben conoscevo per averla più volte sperimentata quando arrivavo in ritardo, ma non la usò.
Il dito sporco d’inchiostro era la prova provata della mia colpevolezza.
Mi agguantò, invece, con la sua mano robusta un orecchio e quasi mi sollevava da terra, mi trascinò fino alla cattedra e mi assestò un bel calcio nel sedere.
“Domani verrai con tuo padre.” Mi disse, buttandomi fuori dall’aula.
Il giorno dopo mio padre mi accompagnò a scuola. Lo scandalo aveva già fatto il giro del mio quartiere e molti mi additavano come un vero eroe. Al cocco aristocratico preferivano me, piccolo lazzarone impenitente.
Il maestro Burragato, appena vide mio padre, lo trasse in disparte nel corridoio e bisbigliò qualcosa al suo orecchio.
Mi portarono in classe. Da una parte il maestro, dall’altra mio padre. Mi sentivo come Pinocchio tra il gatto e la volpe o come Gesù in mezzo ai due ladroni.
Il Penna aveva intanto cambiato vestito. Niente colletti inamidati alla marinara.
“Chiedi scusa al figlio del barone.” Mi disse mio padre davanti a tutti i miei compagni e davanti al maestro.
Guardai il pavimento e feci finta di non sentire. Mio padre reiterò con voce più alta la sua richiesta.
Io guardavo sempre, con ostinazione, il pavimento. Non riuscivo ad aprire bocca, ero come paralizzato.
Percepii esattamente lo spostamento d’aria provocato dallo scappellotto di mio padre che si fermò sulla nuca.
“A casa ne riparliamo.” Aggiunse. Poi, rivolgendosi al maestro prima di congedarsi da lui: “Lo percuota pure, se sarà necessario, gliene do piena facoltà.”
A casa, però, mio padre non fece più parola dell’accaduto. Molto tempo dopo mi confessò di essersi pentito del gesto. Quella sberla, infatti, me l’aveva data a malincuore, solo per far piacere al maestro. Lui aveva fatto di peggio da ragazzo. Più volte, di notte, aveva rotto i vetri dei balconi del barone lanciando contro dei sassi.
Ogni mattina suonavo al portone dei Betto, al Piano Fidone, e aspettavo che i due fratelli scendessero dal piano nobile del loro avito palazzo, per andare insieme a scuola.
Eravamo molto amici, anche se loro erano rampolli di una famiglia benestante e borghese e io povero come Gesù Bambino.
Non erano sciocchi e prepotenti come il Penna.
Giocavo con loro a dadi, a “scagghia e lassa” un gioco che richiedeva molta abilità, allenamento e forza nelle dita.
Spesso nei pomeriggi estivi mi arrampicavo con loro sui ripidi strapiombi delle Grotte “perciate” (bucate, nda), un’antica necropoli che si estendeva oltre i gelseti lì dove aveva origine il torrente di Santa Maria la Nova.
Qualcuno aveva raccontato storie misteriose di tesori nascosti in quelle grotte ed io speravo di trovarne uno.
Sceglievo i migliori rami dei gelsi per fare fionde, uniche mie armi di difesa e di attacco.
Covavo, comunque, nel mio cuore la vendetta contro il compagno di banco del Penna che aveva testimoniato in suo favore contro di me.
Un giorno, all’uscita della scuola, mi appostai e aspettai che mi venisse a tiro. Gli sparai con la fionda una pietruzza in pieno volto con il bel risultato di accecargli un occhio per sempre.
Tutto ciò non poteva passare inosservato.
Mio padre fu di nuovo convocato. Il maestro, questa volta, gli comunicò il provvedimento di espulsione.
La mattina seguente, mia madre mi risvegliò all’alba. Mi mise in mano il solito sacco con dentro pane e noci. Mio padre mi portò a casa di alcuni amici suoi che appaltavano la costruzione di muri a secco.
Questi uomini mi fecero salire sopra una carretta scassata e mi portarono in una grande chiusa disseminata di mille pietruzze.
Il più anziano, al quale ero stato affidato, mi diede un grande corbello e, indicandomi le pietre, disse: “Questo è il tuo lavoro, raccoglile”.
Chi costruiva muri a secco aveva bisogno di quelle piccole pietre per riempire l’interno dei muri. Per questo motivo i bambini erano spesso impiegati nella spietratura.
In quegli anni arrivò a Scicli il Pastore Schirò. Fondò una scuola per i figli dei contadini. Ci aiutava a fare anche i compiti.
Mio padre fu un suo seguace della prima ora ed io ripresi a studiare grazie a lui.
In seguito arrivò pure una cartolina di precetto: avevo appena sedici anni.
Mio padre mi mise su un treno diretto a Palermo. Come molti altri ragazzi della mia età, in caserma a Palermo fui rasato e sbarbato. Mi diedero una divisa, mi fecero una foto da mandare alla famiglia, mi mandarono sul Carso a combattere. I piedi si gonfiavano, l’urina gelava. Pidocchi, cimici e topi convivevano con i soldati.
Una mattina giunse al fronte un signore piccolo di statura, pelato come un melone. Ci radunarono sotto una grande tenda da campo, io ero stato nel frattempo promosso caporale. Ci parlò di Patria, di alti ideali, c’infiammò con parole ardenti gli animi alla vigilia della vittoria. Domandai, alla fine del discorso, al mio ufficiale di riferimento chi fosse quel tizio.
“D’Annunzio, caporale!” Rispose lui, sorpreso e quasi stizzito che io non lo avessi riconosciuto.
Era lui, Gabriele D’Annunzio, capisci? -Mi ripeté.
-E poi? -Chiesi io con molta curiosità.
- E poi -continuò- finalmente la fine dei combattimenti e la vittoria come aveva pronosticato il Vate. Il ritorno a Scicli fu drammatico. Giunsi in paese lacero e sporco ma vivo. Alla fine della Grande Guerra niente più fu come prima. Ma questa è un’altra storia. -
Fece una lunga pausa. Come soprappensiero, promise: - Te la racconterò forse un po’ più in là, se ancora avrò voglia, se ne avrò il tempo, in un’altra occasione.-
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