Note di Notte
di Redazione

Federico Fellini diceva di avere scoperto il trucco. Sosteneva che degli angeli o dei folletti suggerissero le note a Nino Rota, di nascosto. “Le musiche sono già state scritte –diceva-. Si tratta di saper copiare dallo spartito celeste senza farsene accorgere”.
Era il suo stupore davanti alla capacità maieutica di creare dal nulla una melodia.
E dire che egli stesso era vittima dell’identica capacità visionaria. Ricordava Giulietta Masina che quando Federico dirigeva i film di cui lei era protagonista, si arrabbiava tantissimo se lei non capiva, non vedeva.
I sogni, le visioni erano così nitide nella sua mente, che, quando girava, Fellini credeva che gli elementi della fantasia fossero già presenti sulla scena. E restava sconcertato del fatto che gli altri non riuscissero a vedere il suo sogno, che per lui era già materializzato.
Il tamburo di un circo equestre dominava la scena di Nicola Piovani, al castello di Donnafugata, nell’ambito dell’appuntamento più importante del Festival Note di Notte 2008.
Diceva Jean Piaget che la capacità di creare degli artisti risiede in una riserva di infanzia irrisolta.
E di infanzia irrisolta Fellini, Rota e Nicola Piovani ne devono aver avuta molta.
Ascoltare l’incedere bandistico di alcune melodie nella trasposizione cameristica di celebri colonne sonore, sino all’apoteosi de “La Vita è Bella” che gli è valsa l’Oscar, è stato come assistere all’arrivo della banda del paese la sera del dì di festa.
Lieve e malinconico, gioioso e triste, Piovani è riuscito a far vibrare negli spettatori la nostalgia del non provato, a colmare l’assenza, il bisogno di spiritualità che c’è in ognuno di noi.
Forse la musica è un surrogato della religione, e Nicola Piovani, da sacerdote laico, ha officiato la funzione conducendoci per mano in una dimensione fiabesca e spirituale, fatta di sogno, paura, angoscia, stati d’animo altalenanti, come l’altalena di un clown.
Nel sorriso alterno a tristezza della sua musica ci sono le venature tipiche del sogno.
Chiedono se i sogni siano a colori. I sogni sono forse privi di colore perché ciò che si vive nel sogno è il pensiero, l’emozione pura, senza la forza della fisicità, che distrae e permea invece la nostra veglia.
“Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato”, cantava De Andrè nel Suonatore Jones, su musica di Nicola Piovani.
La stessa libertà dell’opera d’arte, della colonna sonora, che oggettivandosi diventa altro dal suo autore.
Diceva Fabrizio che le sue canzoni migliori avevano avuto la fortuna di nascere con le gambe dritte.
E che un arrangiamento più riuscito era un po’ come la minigonna per una donna già bella di suo.
Le canzoni di Piovani e De Andrè sono come una bella ragazza, con le gambe dritte. Può permettersi la minigonna, o abiti castigatissimi, o anche di essere “presa in trappola da un tailleur grigio fumo”, andando in giro per il mondo, lontano dal papà, consapevole che al suo passare tutti comunque si gireranno a guardare.
L’ansia investigante e inquieta della colonna sonora di Annozero, la tridimensionalità della colonna sonora de “Il camorrista” di Tornatore, dove la musica sembra tenderti un agguato, hanno restituito, a chiusura di concerto, la cifra poetica contraddittoria, complessa e irrisolta di Nicola Piovani.
Un bambino che sogna la propria infanzia.
Circense e infelice.
Era il suo stupore davanti alla capacità maieutica di creare dal nulla una melodia.
E dire che egli stesso era vittima dell’identica capacità visionaria. Ricordava Giulietta Masina che quando Federico dirigeva i film di cui lei era protagonista, si arrabbiava tantissimo se lei non capiva, non vedeva.
I sogni, le visioni erano così nitide nella sua mente, che, quando girava, Fellini credeva che gli elementi della fantasia fossero già presenti sulla scena. E restava sconcertato del fatto che gli altri non riuscissero a vedere il suo sogno, che per lui era già materializzato.
Il tamburo di un circo equestre dominava la scena di Nicola Piovani, al castello di Donnafugata, nell’ambito dell’appuntamento più importante del Festival Note di Notte 2008.
Diceva Jean Piaget che la capacità di creare degli artisti risiede in una riserva di infanzia irrisolta.
E di infanzia irrisolta Fellini, Rota e Nicola Piovani ne devono aver avuta molta.
Ascoltare l’incedere bandistico di alcune melodie nella trasposizione cameristica di celebri colonne sonore, sino all’apoteosi de “La Vita è Bella” che gli è valsa l’Oscar, è stato come assistere all’arrivo della banda del paese la sera del dì di festa.
Lieve e malinconico, gioioso e triste, Piovani è riuscito a far vibrare negli spettatori la nostalgia del non provato, a colmare l’assenza, il bisogno di spiritualità che c’è in ognuno di noi.
Forse la musica è un surrogato della religione, e Nicola Piovani, da sacerdote laico, ha officiato la funzione conducendoci per mano in una dimensione fiabesca e spirituale, fatta di sogno, paura, angoscia, stati d’animo altalenanti, come l’altalena di un clown.
Nel sorriso alterno a tristezza della sua musica ci sono le venature tipiche del sogno.
Chiedono se i sogni siano a colori. I sogni sono forse privi di colore perché ciò che si vive nel sogno è il pensiero, l’emozione pura, senza la forza della fisicità, che distrae e permea invece la nostra veglia.
“Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato”, cantava De Andrè nel Suonatore Jones, su musica di Nicola Piovani.
La stessa libertà dell’opera d’arte, della colonna sonora, che oggettivandosi diventa altro dal suo autore.
Diceva Fabrizio che le sue canzoni migliori avevano avuto la fortuna di nascere con le gambe dritte.
E che un arrangiamento più riuscito era un po’ come la minigonna per una donna già bella di suo.
Le canzoni di Piovani e De Andrè sono come una bella ragazza, con le gambe dritte. Può permettersi la minigonna, o abiti castigatissimi, o anche di essere “presa in trappola da un tailleur grigio fumo”, andando in giro per il mondo, lontano dal papà, consapevole che al suo passare tutti comunque si gireranno a guardare.
L’ansia investigante e inquieta della colonna sonora di Annozero, la tridimensionalità della colonna sonora de “Il camorrista” di Tornatore, dove la musica sembra tenderti un agguato, hanno restituito, a chiusura di concerto, la cifra poetica contraddittoria, complessa e irrisolta di Nicola Piovani.
Un bambino che sogna la propria infanzia.
Circense e infelice.
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