Cultura
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06/11/2009 22:57

Voglia di vivere, bisogno di morire

di Ellj Nolbia

Sempre con maggior frequenza ritratti di giovani persone scomparse appaiono sulle pagine di questo giornale. La giovane età ci fa vivere il profondo disagio per la mortalità umana. E il destino eroico riferito all’epilogo, è il prodotto di una nostra insormontata incapacità ad accettare la morte.
 
Negli ultimi casi, scomparsi tutti per malattia.
Frequentemente la solita del secolo: il tumore!

A fronte di tale malessere non desiderato, c’è chi della vita sente un peso insostenibile. Considera la vita una malattia non cercata, una inevitabile condanna. A quel punto la morte diventa l’ultima difesa inconscia all’insopportabile minaccia di dover esistere per costrizione. Con la “bella morte” si realizza – insieme alla pacificazione – istantaneamente e per sempre l’illusione della gloria.

 

 

 



                            Principè

Una vita,
che si accosta per un tratto alla nostra,
lascia tracce perduranti
per lungo tempo,
a volte per sempre.
Anche quando si disgiunge,
un’impalpabile aurea rimane
con radicamento reale,
ad arricchire
la nostra esistenza.

Voglia di vivere

Spesso siamo convinti di conoscere a fondo le leggi della natura e di avere compreso pienamente la struttura della materia. Poi ci accorgiamo che la realtà che speravamo di conoscere si allontana sempre di più dalla cornice di chiarezza che sembrava acquisita, e a quel punto si sfaldano convinzioni e certezze.
Quando uno squilibrio avviene, le difese immunitarie dell’organismo invece di lottare contro gli agenti patogeni che s’infiltrano nel corpo umano, si rivolgono contro l’organismo che dovevano proteggere – come una vera e propria congiura di palazzo – distruggendone dall’interno ogni equilibrio e sperato benessere.
Quando il corpo si ammala, si prova talvolta un senso di estraneità con esso, come se fosse qualcosa che ci costringe dentro i suoi limiti angusti. Una prigione perfino scomoda che racchiude dentro una materia morente un’anima sensibile e attenta. Eppure le infinite e spesso poco ravvisate sofferenze che emergono con la malattia ne hanno preceduto segretamente l’insorgere, magari ne sono state perfino la causa.

A quel punto sopraggiunge l’afflizione!

I medici combattono ogni giorno contro le sofferenze.
L’essere umano in questa lotta è un guerriero spesso invincibile perché lotta contro la propria morte. La natura lo ama, per la spontanea predisposizione alla guarigione  che lo governa.
Ma nell’organismo più complesso, che è il nostro corpo, molti aspetti rimangono chiusi alla luce della conoscenza. La pratica medica è ricca di speranze, ma le tecniche chirurgiche e i farmaci a confronto della ferocia di certo male, sono grezze e impotenti.
L’aggressione fisica del tumore è devastante e la medicina, nel tentativo di debellarlo velocemente, fa accettare alla gente i rischi della cura piuttosto che quelli della malattia.
Come tutte le sofferenze: annichilisce. Fa delle persone sane e realizzate, degli involucri privi di volontà e pieni di rimpianti.
L’accanimento alla vita fa battere tutte le strade della cura: della medicina ufficiale, alternativa, orientale, sperimentale, autoguarigione, ecc. a volte inutilmente, perché l’esito di frequente è determinato.
La solitudine caratterizza la sofferenza di questa malattia e spesso prima della remissione delle capacità di lotta, insorge un nuova urgenza: la ricerca di una compagnia spirituale. La spiritualità come una sorta di rassegnato insegnamento ad accettare la separazione. La sintonia con una salvifica speranza che si può aprire oltre quella fino a quel momento vissuta.

Bisogno di morire

Rainer M. Rilke – con saggezza e bonomia – riportava al giovane poeta, come “ … dopo una sofferenza la nostra forza ne viene fuori accresciuta”. Delle volte la nostra forza, non è tale da superare la sofferenza.  Quando il panico ci possiede e si perdono le risorse che lo controllano, la morte viene intesa positivamente, perché la fine del proprio dolore di un peso intollerabile. Non si ha più paura di essa, ma la si vede come un’”amica” che ci darà conforto e sollievo.
Può succedere che quello che agli occhi del mondo, delle insensibilità diffuse, può apparire come un evento ordinario – per esempio, la separazione da una persona amata – abbia un effetto devastante in chi vive quel dolore. Quello che è importante non è tanto l’evento oggettivo in sé, o nel suo valore assoluto corrente, ma il significato che questo assume per la persona e nella persona che sta male.
Motivo scatenante di certe decisioni è la mancanza d’amore: chi prende in considerazione il bisogno di morire, sente che a nessuno importa se lui vive o muore. Spesso dietro a delle apparenti “normalità”, si nascondono alti gradi di sofferenza e disperazione, invisibile agli occhi del mondo e spesso, invisibile persino agli occhi dei familiari e degli amici più cari.
Cesare Pavese ne “Il mestiere di vivere”, fa una notazione pertinente con lo stato devastante con cui si vive un dolore dell’anima: ”La solitudine è sofferenza, l’accoppiamento è sofferenza, l’ammassamento è sofferenza: la morte è la fine di tutto”.
Chi dentro un forte dolore cerca la fine, vive immerso in un sentimento simmetrico duale verso il soggetto protagonista del suo malessere: un amore fortissimo, che dei momenti lascia spazio ad un altrettanto astio di pari intensità. Non controlla stadi intermedi della coscienza e scivola tra uno e l’altro eccesso. Mentre un senso di vuoto si allarga dentro devastando ogni facoltà, annientando ogni possibilità. Crolla il cervello e tutto quanto intorno.

“Ma insieme le mando anche copia di un piccolo poema appena apparso nella praghese ‘Deutsche Arbeit’. Lì continuo a parlare della vita e della morte e di quanto siano l’una  e l’altra stupende.” Rainer M. Rilke

                                                                                                                 Ellj Nolbia

  In copertina, le porte d’uscita