A 15 anni ballava una sera per Jimy Hendrix e un’altra per Rita Pavone. A 20 era il fidanzato di Enrica Bonaccorti. A 25 sconvolgeva l’Italia molto cattolica e molto comunista di metà anni Settanta travestendosi e cantando «Mi vendo» e «Il triangolo no». Ha amato ed è stato amato da generazioni di italiani: «Ogni tanto un ragazzo scappava di casa e la polizia veniva alle 5 del mattino a cercarlo nel mio letto». Tra una settimana Renato Fiacchini – «il nome Zero lo scelsi con Gianni Boncompagni»- ne compie sessanta.
«Mio padre era un poliziotto. Abitavamo in un grande condominio di periferia, alla Montagnola, con 163 famiglie di poliziotti. Io uscivo di casa in jeans e camicia, con i trucchi e i costumi in una borsa, e mi cambiavo negli androni. Nel primo il boa di struzzo, nel secondo la stivalata, nel terzo gli strass. I colleghi di papà mi puntavano. Finivo regolarmente al commissariato di Campo Marzio, dove lui lavorava. Lo apostrofavano: “Non ti vergogni ad avere un figlio così?”. Ma lui non si è vergognato mai. Mi veniva a prendere: “Renatì, nnamo a casa”. Casa non era sempre stata alla Montagnola. Sono nato in via Ripetta. Il centro di Roma allora era molto promiscuo. Ci stavano calzolari, ombrellari, bottari che facevano botti e fiaschi, e carbonari, perché avevamo il riscaldamento a carbone. E ci stavano le grandi famiglie papaline, gli Odescalchi, i Torlonia, i Del Drago: quando traslocavano, vedevi passare mobili meravigliosi. Poi la mia casa fu comprata in blocco dall’ospedale San Giacomo. Così ci cacciarono in borgata. Ho impiegato tutta la vita a tornare in centro. Qualche anno fa ho comprato vicino a piazza del Popolo; ma non riuscivo a viverci. Solo boutique, neanche una panetteria: mica potevo magnamme ‘e scarpe de Prada. Sò scappato. Ora vivo alla Camilluccia, con mio fratello Giampiero e mia sorella Maria Pia. Vicino a mio figlio adottivo, Roberto Anselmi Fiacchini».
«Andò così. Ero al cinema, e noto questo ragazzino. Era pettinato come Barth Simpson. E mi regalò un pupazzetto di Barth Simpson. Mi raccontò la sua storia: il padre era morto, la madre malata. Sono sempre stato vicino ai ragazzi degli orfanotrofi. Cominciai a seguire Roberto. Quando fu possibile, lo adottai: la legge consente anche ai single di adottare, se il figlio è maggiorenne e non ha più i genitori. Roberto si è sposato con Manuela e hanno due bambine. La grande si chiama Virginia, la piccola Ada, come mia madre. Fare il nonno è delizioso. Fare il padre è più difficile. Ma a poco a poco sono riuscito a ricreare una famiglia numerosa, come quella in cui sono cresciuto. Mio padre, figlio di pastori marchigiani, aveva dieci fratelli. Il più importante per me è stato lo zio prete, don Pietro. Andavamo in vacanza a Esanatolia, nella sua parrocchia, e io gli facevo da chierichetto, servivo messa. Poi lo spostarono a Brondoledo di Castelraimondo, dove il suo unico compito era dare la comunione a un’anziana contessa: lui soffrì molto, e ancora di più soffrirono i parrocchiani, che lo adoravano. Ora gli hanno dedicato un busto e a me hanno dato le chiavi della città. Credo profondamente in Dio. Papà ha studiato in seminario, io dalle suore. Sono al mondo grazie a un frate, che mi ha donato il sangue: sono nato con l’Rh negativo, come mia madre, e ho avuto subito bisogno di una trasfusione. Ho amato molto Wojtyla, un grande uomo. Ratzinger invece è un Papa. Ho cantato contro l’aborto: se lo vediamo come l’ultimo degli anticoncezionali, è un disastro. Vado a messa dai sacerdoti che stimo, come padre Augusto Matrullo, il rettore della basilica dei santi Giovanni e Paolo a Roma: è stato lui a benedire l’urna di Marcella, il portiere del Piper, che aveva scelto di diventare donna. In famiglia avevamo greggi, qualche pascolo, ma eravamo poveri. La sorella gemella di mio padre morì di broncopolmonite. Lui entrò in polizia ma sognava di fare il baritono. Adorava l’opera, compresi i costumi di scena e i lustrini. Forse per questo è sempre stato così comprensivo con me».
«Altri nel quartiere lo erano meno. Mi vedevano e mi gridavano dietro qualsiasi cosa, ma io li affrontavo: “Perché mi dici così? Che cosa ti ho fatto?”. Allora si schermivano: “Nun so’ stato io, è stato lui…”. Ma una volta un tizio mi tirò uno sganassone, così, senza neppure parlare, e mi lasciò tramortito. Una sera andai a cantare a Monte Compatri, ai Castelli, credo fosse una sagra della salsiccia. Presi un sacco di insulti. A vedermi c’erano mia sorella Enza e il suo fidanzato. Riportandola a casa, lui le disse: “Certo che quello lì è strano forte…”. E lei: “Quello lì è mì fratello, e se nun te sta bbene, tra noi è finita”. Si sposarono. Je stavo bbene. Adriano Panatta ha raccontato l’imbarazzo della sera in cui andò a prendere con la sua spider in piazza Venezia un amico della sua fidanzata, Loredana Bertè. Era vestito da angelo: Renato Zero. Se vuoi che si accorgano di te, devi scuoterli. La mia vita è stata una partita di biliardo: passavo anni a mettere insieme le palline nel triangolo; poi all’improvviso davo un colpo terribile con la stecca, e le palline schizzavano dappertutto. Il lavoro più bello del mondo è il marciapiede. Riportare a casa un tossicodipendente è una cosa meravigliosa, che ti ripaga di tante altre».
I suoi amori?
«Con Enrica Bonaccorti è stato un lungo viaggio affettivo insieme. Poi c’è stata Lucy Morante. Mi amava al punto da vendere i miei dischi fuori dai concerti. Si è presa un sacco di gavettoni per me, e non metaforici. Il Piper era in un quartiere borghese, il Salario. Ci odiavano. Passavano vecchine eleganti, adorabili, e ci gettavano addosso buste piene d’acqua. Poi è arrivato il successo, e ha reso tutto ancora più difficile. Per uscire di casa dovevo nascondermi nel furgone della lavanderia, tra le robe sporche».
Amori maschili?
«Presto uscirà una canzone in cui risponderò definitivamente a questa domanda, che mi ha stancato. Ognuno si curi il proprio orto, lasci aperta la porta, non si chiuda gli orizzonti, non si appiccichi da sé etichette che la vita potrebbe smentire. Non mettiamo limiti alla provvidenza. Conosco uomini con quattro figli che la sera si truccano pesante e vanno al Colle Oppio sui tacchi a spillo. L’importante è essere sempre aperti all’amore. Pensare solo al tuo benessere fa di te un miserabile, o un benestante: condizioni cui non aspiro minimamente».
Il triangolo no.
«Era la ricerca di un’identità, che giustifica errori, malintesi, contrattempi. La trasgressione è la timidezza che si maschera. E’ la valvola di sfogo della disperazione, che ti evita il manicomio, la casa di recupero”.
Mi vendo.
«Non mi sono mai venduto. Anche se mi volevano comprare in tanti, e ricchi. Niente di male: inviti a casa, a cantare per gli amici. Ma io le trovavo offerte offensive. A Milano conosco meglio Quarto Oggiaro dei salotti».
La droga.
«Era merce d’importazione, non romana. Roba da attici, non da mezzanini. C’era gente che fumava ancora l’oppio. La cocaina era inarrivabile. Pasolini mi faceva paura. In borgata giravano voci cattive su di lui, lo raccontavano come un depravato, un pervertito. Però c’era chi gli voleva bene. Ho capito Pasolini solo quand’è morto, in quel modo così coerente con la sua vita. Fellini era affettuoso. Gli chiesi di recitare nei suoi film. Lui mi accarezzò l’ovale e mi disse: “Renatino, tu qui sei sprecato”. Ma che sprecato, famme lavorà! Così mi fece lavorare in Satyricon e in Casanova. Si girava sempre di notte. Ammiravo Mario Schifano, c’è un suo quadro dedicato a me: gli artisti di piazza del Popolo erano il mio lasciapassare per entrare nei locali da minorenne. Ballai per don Lurio e per la Pavone, finché i ballerini professionisti mi fecero fuori proprio perché non avevo l’età. Andavo a fare il pubblico di Bandiera gialla, la trasmissione radio di Arbore e Boncompagni, che mi diede i soldi per il primo disco. Facemmo la versione italiana di Hair, con Loredana Berté, sua sorella Mimì e Teo Teocoli. Al Piper c’era anche Christian De Sica, con cui sono amico da quando avevamo 17 anni perché gli riconosco una grande qualità: è sempre stato Christian; non è mai stato De Sica. La sera del 24 dicembre 1974, al Folk Rosso, suonai per un solo spettatore. Il proprietario stava spegnendo le luci. Lo fermai: ho detto in casa che stasera lavoro, e voglio lavorare. Dopo di me, lo spettatore solitario ascoltò pure Venditti. Una sera andai a Zocca, a un concerto organizzato da Vasco Rossi. Alla terza canzone si fulminò l’impianto; cominciai a raccontare barzellette. Vasco mi diede un milione e mezzo e mi disse: “E’ la prima volta che paghiamo volentieri qualcuno che non ha cantato”.
«Mia madre faceva l’infermiera al Santo Spirito, finché dovette smettere: per seguire i cinque figli, e perché non sopportava più le avances dei medici. Mamma era una gran bella donna. Di cognome si chiamava Pica, come Claudio Villa, che si era convinto che fossimo parenti. Così ci invitò sulla sua barca, a Viareggio. Arriviamo al porto e vediamo una sfilza di barche, una più bella dell’altra, ma non Claudio. Ce ne stavamo andando, quando notiamo l’unica barca con tutti i panni stesi ad asciugare. “A mà, me sa che l’avemo trovato…”. Anna Magnani invece la vidi al semaforo. Ero sulla Prinz con papà e notai quella signora che si passava tra i capelli neri una mano piena di braccialetti: “Papà, quella è la Magnani!”. Lei si gira e mi saluta: “Ciao Nì!”. Poi è arrivato il verde”.
Il primo film di Renato Zero si intitola Ciao Nì. Fu campione di incassi, ma fu anche l’ultimo.
«Siccome era costato due lire, mi offrivano budget ridicoli. E io ho sempre tenuto a fare le cose bene. Provare. Curare i dettagli. Madonna non mi piace. Mi piacciono Barbra Streisand e Celine Dion; Madonna no. Una sera a New York Elio Fiorucci mi portò a vedere una cantante italoamericana, spiegandomi che avrebbe avuto successo: era lei. Cantava in playback, saltellando qua e là. Meglio Patty Pravo, che una sera arrivò al Piper su una Rolls bianca guidata da un nero, con due levrieri al guinzaglio, salì sul palco e cominciò a cantare Ragazzo triste. Nessuno di noi l’aveva riconosciuta. Ce ne accorgemmo dopo un quarto d’ora: “A Nicolè, ma che ffai? Scenni ggiù…”. Nicoletta ha voluto il successo, l’ha avuto. E un poco ci ha sacrificati. Ci ha privato della sua compagnia. Adoro Paolo Poli. Ho adorato Gaber. Jannacci. Fiorenzo Fiorentini, Mario Scaccia, Giancarlo Cobelli. Mi manca Battisti: un giorno mangiavamo insieme alla mensa della Rca, mi chiamò al suo tavolo e cominciò a raccontare barzellette; era una persona molto tenera. Mi mancano gli amici morti da poco: Piero Vivarelli, Pietro Calabrese. E i grandi che ci hanno lasciato: Michael Jackson, Freddy Mercury. Tra i giovani è interessante Marco Mengoni. Mi ha confidato di essersi ispirato a me, mi fa piacere».
L’immagine dei “sorcini”, il nome che ha dato ai suoi fan, gli venne da un nugolo di motorini che correvano attorno alla sua macchina. Uno dei segreti della longevità del suo successo, spiega Zero, è di tenere sempre d’occhio le prime quaranta, cinquanta file della platea. Capire gli ammiratori, seguirli, vederli portare i figli.
«Un sorcino ora è il presidente di una banca, un altro è un alto magistrato di Milano. No, niente nomi. Un medico mi ha visitato e, dopo che mi ero rivestito, si è rivelato: “Finalmente sono riuscito a toccarti…”. Mi vogliono bene anche ora che sono cambiato, da quando nel ’91 a Sanremo ho deciso che i lustrini mi stavano stretti. La chirurgia estetica, però, mai. Ho fatto una sciocchezza, farmi togliere il doppio mento dall’ex marito della Santanchè. Basta così: altrimenti non ti fermi più, e alla fine sembri una mappa geografica. Già è pieno di gente con il parrucchiere privato; l’imbalsamatore privato mi pare troppo».
Nel mondo dello spettacolo si racconta di quando la Bertè stava per accasarsi con un miliardario, finchè una sera nel ristorante di New York, dove Loredana cenava in tailleur con i futuri suoceri, entrò Renato Zero, vestito da Renato Zero…
«E’ stata colpa mia, è vero. Ma alla cena ero invitato. E non fu una questione di vestiti. Il “suocero” era un benestante che parlava male dell’Italia. E quando io all’estero sento parlare male del mio paese, non ci vedo più. Loredana si schierò con me”.
La conversazione, che avviene in un’osteria di quartiere, è interrotta di continuo dall’omaggio dei fan, dalle telefonate della Berté – “da sempre sono suo fratello e il suo punching-ball” – e ora dal nipote di Enis Togni, quello del circo, con cui Zero comincia una conversazione nella lingua dei sinti, in cui ricorrono di frequente i termini “dritto” e “gaggio”.
«L’ho imparata quando feci la tournée con il tendone dei Togni, che ogni sera i sinti montavano e smontavano. Dritti sono loro, gaggi siamo noi – traduce Renato -. Questa politica contro i nomadi è orribile. A pensarci bene, tutta la politica oggi è orribile».
Lei cosa votava, e cosa vota?
«Spesso non voto. Non ho stima di nessuno, sono fermo ad Antonio Gramsci e a Luigi Einaudi. Vengo da una famiglia di comunisti. Mario Tronti era mio zio: figlio di Nicola, il fratello di mia nonna Renata. I suoi genitori avevano il banco ai mercati generali, si alzavano alle 4 di mattina. Andavo a trovarlo nella sua casa sull’Ostiense. Ricordo una piccola stanza foderata di libri, questo ragazzo più vecchio dei suoi anni; ero così fiero di lui. Per me il partito comunista era questo: un padre che torna a casa stanco dal lavoro, mette in tavola un pane, un bicchiere di vino e un fiasco d’olio, e con quel che ha risparmiato compra un libro a suo figlio. Oggi questi c’hanno la barca e l’ossessione per la poltrona. Litigano, ma non per la politica; per il loro ego. E fanno i soldi. Oggi fa politica solo chi ha i miliardi. Per entrare in Parlamento, un operaio deve bruciare alla Thyssen. In compenso vedi molti sindacalisti. A me comunque il partito comunista non m’ha mai voluto. Gli altri suonavano alla festa dell’Unità con le loro band; io giravo i locali con il registratore, pigiavo play, partiva la musica e cantavo, solo come un cane. Non sono mai stato in quelle trincee, ma in altre, molto più esposte. E ancora adesso la politica di me non vuol saperne. Ho maturato la pensione: 800 euro al mese. Una presa in giro. Le darò a chi ne ha bisogno davvero. Ho il passaporto intonso: non sono mai andato da nessuna parte. La mia Nuova Zelanda, il mio Oklahoma, la mia Namibia sono stati i palcoscenici d’Italia. Eppure, con tutto quel che ho lavorato, con tutte le persone che ho aiutato, cosa mi ha dato il mio Paese? Niente. Manco una croce di cavaliere».
Davvero lei, Renato Zero, l’uomo con i lustrini, vorrebbe una croce da cavaliere?
«Sì. Ne sarei onorato. Embé?».