Catania - Mi dicono: «Perché non intervisti Marussja, la sorella di Igor Man, il giornalista di origine catanese scomparso un anno fa?». E' un'idea, ci provo. Scrittrice, poetessa e collaboratrice de La Sicilia dal 1951 al 1963, oggi Marussja ha 86 anni, non vede più bene, abita a Roma con il figlio Vania. La sua voce al telefono è dolce e garbata, la sua risata squillante come quella di una ragazzina, ma per rivivere il passato ha bisogno di essere guidata da chi ogni tanto nel nostro giornale pubblica ricordi di una famiglia di giornalisti e scrittori, cercando di mettere assieme le tessere di un mosaico che sta tutto nel terribile XX secolo, quello con cui noi italiani non abbiamo mai fatto i conti (e si vede).
Allora, anziché un'intervista «in presa diretta», proponiamo una chiacchierata tra mamma e figlio costruita sul filo della memoria. La conversazione che segue è dunque storicamente vera, documentabile nei contenuti, ma narrata liberamente con lo stile scrittorio di Vania Di Stefano (in tondo) e approvata dall'interessata (risposte in corsivo).
«Mia madre s'affacciava e chiamava mio padre per il té con una frase russa che diceva...».
Dalla bocca di Myriam (detta Marussja) escono parole antiche, struggenti: quelle di Elfride Neuscheler fuggita dalla rivoluzione sovietica nel 1916. Approdò in Sicilia, s'innamorò di Titomanlio Manzella, morì di cancro nel 1932.
«Mio padre impazzì quasi. Avevo 8 anni, Igor 10, Mirco 5. Arrivarono le governanti tedesche. Il russo si spense sulle nostre labbra e imparammo il tedesco. La lingua materna riaffiorava quando c'erano Nadine e Vera, sorelle di mia madre. Da Cibali venimmo via nel 1942, diretti a Roma, passando lo stretto sotto i bombardamenti».
Avevi paura?
«Mai provata: mio padre era tranquillo, impenetrabile ormai a ogni dolore».
Cosa recava con sé a Roma una diciottenne in piena guerra?
«I profumi del mare d'Acitrezza e lo strazio per la morte di mio cugino Ardengo sepolto nel sommergibile Corallo; recavo la medaglia di campionessa regionale di lancio del disco e l'ansia per la sorte del fratello di Ardengo, Francesco, deportato in India dopo la battaglia di Giarabub; tornò anni dopo, provato, ma con l'onore intatto; recavo una ciocca di capelli di mia madre e il suo respiro sulla mia guancia; recavo l'abbraccio magro di mia nonna Giuseppina Frontini, figlia del grande musicista, e il calore avvolgente dei miei sogni, della mia straripante fantasia».
Quando pubblicasti i primi versi?
«1943 nel Meridiano di Roma; altri poi nel Giornale di Sicilia, Il Giornale della sera, Doctrina, La Fiera Letteraria, Il Corriere di Sicilia. Da allora non ho mai smesso. Negli ultimi anni, a dispetto di questi occhiacci che m'hanno tradito, ho scritto su fogli senza poter leggere ciò che scrivevo».
Premiata?
«Al Sette Stelle di Sinalunga nel 1951 con la lirica Nuova carezza, che piacque più della poesia di Pasolini. Lui si congratulò. Facemmo amicizia, ma non lo rividi più. Un uomo affascinante, il viso sensibile scavato dall'ombra dell'inquietudine. La Sicilia segnalò la mia vittoria con altri quotidiani. Era direttore Antonio Prestinenza, Neddu, compagno di prigionia di mio padre nella grande guerra, anima d'artista vero. Apprezzava le mie cose, così, caso raro per una donna, divenni collaboratrice della terza pagina».
Cosa scrivevi?
«Racconti, con ritmo quasi settimanale, ma anche pezzi di colore».
Quanto è durato?
«Dal 1951 al 1963».
E poi?
«L'incontro col segretario della Quadriennale d'Arte di Roma, Fortunato Bellonzi - presentatomi da Emilio Greco, amatissimo amico di famiglia - portò a una collaborazione precaria che durò fino al 1983, quando anche Bellonzi settantaseienne fu pensionato senza pensione e liquidazione».
Possibile?
«E' l'Italia di sempre. Tirò avanti scrivendo articoli su Il Tempo, poi con la legge Bacchelli ebbe un vitalizio per meriti culturali. Lavorando con lui, nel 1960 cominciai a pubblicare articoli su artisti contemporanei e nel 1967 proposi a La Sicilia la rubrica, Arti figurative, durata almeno sino al 1972».
E la poesia?
«Sono usciti due volumetti che nessuno ha letto e tanto meno comprato: Come grano falciato nel 1974 e Che importa il tempo nel 1992».
Cosa tieni nel cassetto?
«Il frutto del mio disordine creativo, che ha partorito versi liberatori, ma sempre lontano da critici, salotti e manfrine».
Questo spiega un po' il tuo isolamento.
«Non mi pento di nulla. A modo mio sono stata fortunata e felice. Ho conosciuto persone straordinarie e veri artisti, e ancora ne frequento, talora solo telefonicamente: i coniugi Gizzi creatori in Torre dei Passeri della Pinacoteca Dantesca intitolata a Bellonzi, e poi Tonino Caputo, Franco Mulas, Riccardo Fiore, Alejandro Kokocinski, Albino Moro, Vincenzo Gaetaniello, Ikujo Toba, Francesco Manzini, Giovanni Gromo, Bruno Caruso, Ennio Calabria, Stefania Guidi, Claudio Capotondi. A Nicola Micieli devo la riscoperta di Bellonzi pittore. Molti non ci sono più, ma solo nel corpo: fra gli artisti Riccardo Tommasi Ferroni, Marcello Tommasi, Gaetano Pompa, Emilio Greco, Giuseppe Mazzullo, Carlo Quattrucci, Sho Chiba, Venanzo Croccetti, e poi uomini di cultura come Bonaventura Tecchi, Jacopo Recupero, Ennio Francia, Enzo Carli, Carlo Ludovico Raggianti, funzionari come Umberto Parricchi, Gianluigi Ferrarino. E ne avrei di nomi... ad esempio Sebastiano Milluzzo che nel 1951 mi fece un ritratto».
Parlami di Catania.
«Dopo il trasferimento a Roma, passata la guerra, nei primi anni Cinquanta ci tornavo d'estate, viaggiando in terza classe su treni meravigliosamente aperti e lenti; rasentavano paesaggi paradisiaci, spiagge deserte, canneti, vigneti, uliveti. Tornavo per la nonna, gli zii Gesualdo, Alfredo, Dernier, Savina e suo figlio Gaetano Zappalà grande poeta. Si stava in via Pietro Carrera 19 e di lì partivamo per memorabili passeggiate tra ginestre, fichidindia e muri di lava. Al giornale ci andavo per portare i pezzi e salutare Prestinenza e Piero Corigliano, formidabile redattore, preparato, simpatico, non si dava le arie e lavorava sodo. Con suo fratello Gino, invece, ci siamo ritrovati a Roma».
Pensi di pubblicare ancora?
«Anni fa mandai alla Sellerio Sangue d'uva, una selezione dei racconti usciti su La Sicilia, ma nessuno m'ha risposto. Non ci penso. Diversamente da mio padre, non ho mai avuto l'assillo di pubblicare; quel che ho avuto m'è bastato e per essere felici basta poco, basta la stima di persone sincere e genuine. Mio padre ha passato la vita a battere su quella vecchia Olivetti che conservo ancora. Il rumore della macchina era come una ninna nanna; le sue dita la cantavano, inseguendo il pensiero con ritmi allegri, ora esitanti, ora torrenziali».
Ti sei laureata?
«Ci provai; me l'hanno impedito le difficoltà familiari».
Però sei iscritta all'albo dei giornalisti.
«Sono pubblicista dal 1957 e fui premiata nel 2002 per gli anni di attività svolta».
Torneresti indietro?
«Sì. La vita è bella e va presa con un occhio serio e uno scanzonato. Te lo dice una che non vede più bene».
Nel ritratto, Marussja ritratta da Milluzzo