Scicli - E’ esplosa l’attenzione per i diari. Da tempo si raccolgono diari a Pieve di Santo Stefano, in Toscana e l’anno scorso Paolo Di Stefano sul Corriere della sera pubblicò un diario proveniente da Scicli. Un altro importante diario è Terramatta di Vincenzo Rabito pubblicato da Einaudi. In questi giorni Maria Teresa Spanò insieme al suo gruppo Energia e Simpatia ha curato e pubblicato la biografia di Rosina Agolino, scritta tutta nel dialetto di Scicli col titolo “Rusina, la mia vita”. Il volumetto, oltre alla prefazione della curatrice, contiene scritti di Gino Carbonaro, Gaetano Mormina, Guglielmo Russino, Eloisa Sammito, i nipoti della Agolino, un brano musicale trascritto da Massimo Piccione. A corredo le illustrazioni di Daniele Assenza e le foto raccolte da Bartolo Trovato.
Il racconto di Rosina procede per frammenti di memoria, per episodi della sua vita e della sua famiglia. Una vita che rende con efficacia espressiva in un dialetto intraducibile un mondo di povertà, di fame, di duro lavoro, di grande amore familiare, con figure straordinarie della propria famiglia, in uno spaccato degli anni Quaranta, degli anni Cinquanta e degli anni Sessanta del Novecento, in una Scicli di braccianti e di “cavalieri”, di democristiani e di comunisti, con le lotte bracciantili per una vita più decente di tanta povera gente, costretta a lavorare nei campi dall’alba al tramonto, senza garanzie sociali, con un’alimentazione fatta di fave, di poco frumento, di poco olio e qualche frutta spesso rubata per disperazione; una storia in cui predominano il coraggio e la tenacia delle donne, delle nonne e dei nonni; una storia di famiglie con molti figli, con molta mortalità infantile e con precoci vite spezzate da malattie che spesso mancavano di diagnosi. Una storia di tenacia e sopportazione, con brandelli di allegria tra uomini spesso ubriachi e privi di responsabilità familiare, che si facevano comunque perdonare per la loro allegria e per l’ironia con cui affrontavano la vita.
Rosina inizia con la sua nascita raccontata a lei da sua madre, preoccupata di mettere al mondo una bambina brutta, essendo tutti i suoi familiari bruttini. Neonata le si approntò la culla tra la stalla dove si trovava l’asino e a “tannura” per poterla riscaldare un po’ nel lungo inverno, ma ci mancò poco che prendesse fuoco per una favilla che andò a finire nella culla. A sei mesi ( era nata in gennaio) in estate la madre la porta con sè nei campi per la raccolta delle mandorle. A lei, di pelle scura, fu messo un cappellino bianco e sembrava una negretta. Per l’occasione fu approntata una culla sotto un albero di fico e per esorcizzare il malocchio furono raccolte tre foglie di fico. Come per incanto la bimba come un serpente rinnovò la sua pelle che divenne bianca e bella. Rosina a tre anni ricorda di aver preso l’iniziativa di andare a trovare sua nonna che abitava in un altro quartiere, senza avvertire la sua mamma. Lungo il tragitto si smarrisce, ma sarà ritrovata da sua madre, preoccupata. Arriva il momento di andare a scuola. Rosina va a scuola senza scarpe ( ma era ben pulita e ben lavata). l La madre le appronta un grembiule e frequenta le elementari per tre anni. Nonostante non avesse aiuti in casa a era brava ed apprendeva con facilità. Smette al terzo anno e si sente già “diplomata” rispetto a tutti i suoi fratelli e le sue sorelle che a appena sapevano leggere e scrivere. Da bambina con le sue amiche d’infanzia era sempre la “capa”, e le acque del suo parto erano state buttate fuori dalla casa come era uso per i maschi e non per le femmine; per questo la sua vita si svolse prevalentemente all’esterno.
A nove anni va come “criata” presso una famiglia benestante, col compito di accudire una bambina. La piccola era pesante e lei aveva difficoltà a poterla tenere in braccio. Per questo le dava pizzicotti nel sederino. Un ruzzolone della bambina fece decidere Rosina a lasciare l’impegno assunto e a tornare a casa dove, però, si continuava a vivere di stenti e di fame e con un padre sempre ubriaco.
Le prime mestruazioni a undici anni: non lo disse a nessuno e provvide da sola nel lavarsi e nel pulirsi fino a quattordici anni. A quindici anni andò a lavorare insieme a suo padre in campagna senza mai vedere un quattrino; a ricevere la paga era il padre che se la spendeva in bicchieri di vino. Nello stesso anno si innamora di un suo coetaneo e il fidanzato viene accolto in casa. Rosina continua a lavorare per contribuire in modo consistente all’economia familiare e per poter dar da mangiare ai fratelli e alle sorelle. La vita familiare comprende molti dolori. Rosina ricorda in particolare la malattia di un fratello che perderà un occhio, un racconto crudo e drammatico insieme. A vent’anni Rosina “fugge” col suo fidanzato. Un modo per potersi sposare, un viaggio di qualche chilometro in una povera stanza prima di essere accolta col suo ragazzo nella casa del suocero; dopo qualche mese il matrimonio riparatore, come era costume tra povera gente che non aveva i soldi per un normale matrimonio. A nove mesi nasce la prima figlia e subito dopo tre giorni dal parto è già al lavoro. La seconda figlia le muore dopo tre mesi. Dal lavoro nei campi passa al lavoro nei “maiazzè”, dove si confezionavano i primaticci. Insieme a suo marito compra la casa, mentre le figlie, già ragazzine imparano il mestiere di sarta. Tutte e tre si sposeranno. La famiglia al completo sarà di tre figlie e undici nipoti.
Il racconto continua co altri capitoli: uno è dedicato al marito, ai suoi suoceri, alle sue sorelle. Il marito è un bell’uomo, un bracciante buono per temperamento e carattere, dedito al lavoro.
Un altro capitolo è dedicato al padre, una figura che Rosina riesce a perdonare e a comprendere, nonostante il suo disinteresse per la famiglia, le sue continue ubriacature. Un uomo, che la moglie accettò con rassegnazione, sempre allegro, con nove figli messi al mondo, molto bravo a far divertire i suoi bambini. Rosina ne ricorda il gioco delle ombre cinesi nella povera casa e la sua capacità nel raccontare episodi comici della sua vita in campagna ( ne trascrive diversi molto divertenti). Un capitolo è dedicato al nonno Vittorino, figlio di un prete. Vittorino era molto buono e affettuoso. Si era risposato dopo la morte della prima moglie. Due figli con la prima moglie e sei con la seconda. Ebbe un fratellastro che diventò ingegnere, anch’egli figlio del prete. Questi usò due pesi e due misure. Vittorino rimase povero, mente l’ingegnere diventò un benestante.
Un capitolo Rosina lo dedica al suo impegno politico nel Partito Comunista Italiano, affianco a Rosina “ a tignusa” , gli scioperi organizzati da lei, le conquiste fatte per i diritti dei lavoratori.
L’ultimo capitolo riguarda gli ultimi decenni, dopo essere andata in pensione. La sua partecipazione ad un gruppo in palestra per fare ginnastica col prof. Russino prima e col dott. Mormina dopo. Infine la sua partecipazione attiva al gruppo della prof.ssa Spanò “Energia e simpatia”, un’esperienza oramai decennale nel fare spettacoli con canzoni siciliane, un’esperienza che ancora continua.
La sintesi del libro purtroppo non rende l’efficacia della scrittura in dialetto, con modi di dire di una lingua spesso scomparsa. Se non si può fermare l’inarrestabile mutamento della lingua, la scrittura può aiutare a capire un ben preciso momento storico, una storia degli umili che spesso non riesce ad entrare nella storia sociale di un paese.