Cultura
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19/05/2014 20:12

Fornace Penna di Pisciotto. Un’intervista. Del 1996

Diciotto anni dopo…

di Giuseppe Savà

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La Fornace Penna
La Fornace Penna

 Scicli – Tre domande sull’architettura da salvaguardare.

Intervista di Peppe Savà a Pasquale Bellia in preparazione del Convegno “Fornace Penna, reperto di archeologia industriale” Scicli, 16 Marzo 1996. Pubblicata ne Il Giornale di Scicli, 25 febbraio 1996.

 

 Prima Domanda

Quali manufatti architettonici esistenti a Scicli sono meritevoli di essere conservati alla lettera e quali possono essere suscettibili di modifiche progettuali e funzionali?

 

Vorrei rispondere a questa domande con delle considerazioni disciplinari e metodologiche di carattere generale, per definire dei lineamenti di intervento riferibili ai tanti manufatti architettonici degradati della città in attesa di attenzione.

 

Il campo della storia dell’architettura finora è stato arato solo per manufatti emergenti o per “protagonisti” (i progettisti di architetture), ultimamente stiamo assistendo ad uno spostamento di interessi sempre più cosciente e intenzionale verso i luoghi del lavoro e l’architettura “minore”.

La riprogettazione funzionale (nella prassi riconosciuta e consolidata da tempo) riguarda soprattutto edifici che in primo luogo sono assenti dalla storia dell’architettura (gli edifici non monumentali) e in secondo luogo sono successivi, come epoca di edificazione, al 1800. Cioè, secondo i principi appena esposti, sono inoperanti le categorie elaborate a partire dagli edifici eccezionali (unici e irripetibili, es. Fornace Penna, Palazzo Beneventano) e i criteri fondati sui “caratteri stilistici” (il Barocco di Scicli) sono inapplicabili.

 

Se la cura del riattivatore si basa su queste categorie e criteri, si può dedurre che – nel valutare il grado di intervento – prevarranno le considerazioni basate sul contenuto (monumentale o stilistico), in assenza di questo, egli giudicherà gli edifici sprovvisti di interesse, quindi rivitalizzabili.

La riattivazione e anche il consolidamento non attenti ai caratteri filologici delle architetture non monumentali, si scontra con una carenza culturale. Sappiamo come trattare le chiese monumentali e i palazzi signorili, ma siamo disarmati davanti alla città operaia o ai luoghi del lavoro. E poi la nostra cultura eclettica spesso non sa dove si trova la linea di spartizione tra il conservabile e il modificabile. Se a questo aggiungiamo la soppressione – legittima – della distinzione netta tra architettura “minore“ e “grande” architettura, non si facilita certo il compito. Questa contrattazione non significa che bisogna trattare tutti gli edifici antichi non monumentali allo stesso modo, è evidente che il grado di intervento deve variare da caso a caso con sensibilità e cultura nell’interesse dell’identità del manufatto.

 

La conservazione ci difende dalle spesso maldestre manipolazioni sulle architetture del passato e attua una zona protetta attorno al monumento. Un alone, una terra di attesa e di rispetto nella quale si spegne l’apparente silenzio, ma l’effettivo fragore, emesso dagli “oggetti storici”. Zona protetta come distanza riverenziale verso la “qualità” materializzatasi nelle architetture uniche e monumentali. Per quanto concerne il recupero e la ridestinazione (o meglio rivitalizzazione) penso che per un verso esse siano strategie utili (spesso rappresentano la condizione necessaria per prolungare la presenza di un edificio), per altro bisognerebbe farne a meno nei casi di ruderizzazione già avvenuta (es. Convento dei Cappuccini, S. Antonio, Fornace Penna) o quando si è in presenza di un elevato pregio stilistico del manufatto. Intervenire in questi casi limite – nell’impazienza del consolidamento solo per necessità statiche – comporta la realizzazione di un manufatto diverso dal primo in attenzione e che quindi rende vano e nega lo stesso processo di conservazione. Se rileggiamo le vicende architettoniche trascorse ci rendiamo conto come la cultura della conservazione (v. politica edilizia a Bologna negli anni Settanta) è nata come reazione ai “fallimenti” della grande scala urbana teorizzata dalla modernità (es. scuola Lipparini in p. Italia).  

 

ph. Bellia

                                                                                                                                                             Continua…