Scicli - Spesso sogno il giardino della mia infanzia, un luogo edenico nel quale mossi i primi passi e che mi vide crescere lentamente fino a farmi uomo.
Era uno spazio chiuso, al centro della città. Un tumulo abbondante di terreno, gelosamente nascosto per tre lati da case, antiche celle di un convento che il nuovo Regno d’Italia aveva confiscato e poi venduto all’asta.
Era difeso per l’altro da un’altissima muraglia che sigillava una stretta clausura, vergini povere e sante creature che vivevano di cielo e di preghiera.
Santa Teresa, l’ultima chiesa dell’antico Corso San Michele, la più spoglia in apparenza ma nell’interno giocosa vertigine, traeva luce e respiro dalle sue piante secolari, dai profumi inebrianti di erbe aromatiche e officinali che le antiche suore lavoravano su un levigato desco di pietra. Al riparo da sguardi di peccato, resistevano così alle tentazioni della carne per consolazioni celestiali che forse non arrivarono mai.
Rimasero però le loro ombre, tra felci rigogliose e infestanti, leggere per i viali di terra battuta dove io, ignaro, mi aprivo alla vita e la cercavo, che strano!, in quella solitudine perfetta abitata solo da Dio.
Più tardi una donna discreta, misteriosa nella sua natura e magica, claustrale come le altre, saprà dare ancora una volta vita, respiro e senso a un orto botanico che sembrava destinato a perdersi.
Mi crebbe, questa donna, mi amò a modo suo, m’inculcò la curiosità e la passione per le piante e per i fiori.
Il giardino prese a scandire con le stagioni il tempo della mia vita.
Non mesi e giorni ma solo fioriture e raccolti.
La Settimana Santa aveva il colore delle clivie che, invasate a febbraio, avrebbero adornato il “sepolcro” della Vergine Addolorata in San Giovanni.
A Natale il vecchio cachi si caricava di frutti d’oro che lentamente sparivano divorati dalla mia ghiottoneria.
E nel presepe non mancavano nespole del Giappone, strani frutti cremosi, alquanto insipidi; piccoli fichi d’india americani dall’intenso colore rosso sangue; mortella bianca e viola dal profumo vanigliato e penetrante; cedri, melagrane, uva dorata o rossa; bergamotti dall’odore penetrante e dalla polpa scipita.
Piante esotiche e grasse dal verde più o meno intenso e dai fiori meravigliosi e strani vegetavano nei suoi angoli segreti.
Un secolare filodendro dalle foglie giganti, invasato, a periodi colorava le grigie atmosfere di un enorme palazzo abitato solo da fantasmi.
Ero ghiotto dei suoi frutti che avevano un sapore cremoso di banana.
Piccole banane profumate e dolcissime.
Gelsomini comuni e d’Arabia; la caracalla, un fagiolo americano dai fiori profumatissimi, si arrampicava con le sue lumachine giallo oro su un muro decrepito che non contava gli anni.
Passeggiavo nelle ore meno calde d’agosto per il vialetto di mandarini o l’altro di oleandri, dall’intenso odore di mandorla amara, tutti fiancheggiati da nepitella, origano e mentucce, dal bosso, dalle salvie profumate, fino al pozzo nascosto dentro una cappella minuscola sormontata da una croce di pietra in parte sommersa da rigogliose ortensie e rosmarino.
Il vecchio nespolo, enorme, solenne, rigurgitava di uccelli a primavera.
E il gelso secolare sanguinava a giugno dai frutti turgidi, come per antiche bave.
Palme da dattero, svettanti verso il cielo, e glicini e ostinati rampicanti tappezzavano le rustiche pareti fatte a secco.
Vagavo cercando me stesso.
Chissà che ne è stato del piccolo cimitero d’animali dove riposavano la cagnetta Titina con altri cani, il gatto Leo e il gemello Frou Frou? L’edera ricopriva come una coltre allegra di velluto le loro piccole tombe segnalate da levigate lastre di pietra.
La primavera m’inebriava con l’odore delle fresie bagnate dalla pioggia.
Le violette diventavano canditi che, sciogliendosi, rilasciavano in bocca il loro caratteristico profumo.
Ma la rosa bianca era la mia preferita fra le altre anche se più preziose e rare. Fioriva a maggio e fuggiva, arrampicata oltre il grande muro verso la strada, come una ribelle novizia in cerca del suo amante.
Era una festa quando il giardiniere due volte al mese veniva ad innaffiare. Un rito quasi. Bisognava fare andare un piccolo motore a scoppio che negli anni Sessanta fu collocato sopra l’antico pozzo. L’acqua fluiva generosa, giungeva da misteriose viscere della terra e l’uomo paziente e forte l’accompagnava con la zappetta per dirigerla a suo piacimento tra solchi larghi che chiamava “cunnútti”.
Vincenzino o ‘mpa Vicienzo erano i maghi che facevano questo.
A settembre, ormai grande, ero io a preparare la lista per richiedere sementi e bulbi. I fratelli Ingegnoli da Sanremo spedivano pacchi e pacchi contrassegno dentro i quali erano custoditi veri e autentici tesori.
Poi la morte.
Il silenzio, insopportabile compagno fra quelle mura.
L’incuria e l’abbandono.
Non so più che cosa resta di quell’antico paradiso, so solo che il giardino continua a fiorire e a vivere nel mio sogno, intatto appeso al filo magico dei ricordi.
Scruto con ansia il suo vetusto e ciclopico bastione come facevo sempre da bambino.
Sì. Il piccolo Ecce Homo, che una mano incerta un giorno, non saprei dire quando, incastonò come pietosa reliquia tra le pietre è sempre là, al suo posto.
Forse perché nessuno se ne è accorto mai.
Nella foto, il giardino del Castello di Donnafugata