Cultura Scicli

Tracce di storia a Palazzo Ribera

Una ricerca del prof. Paolo Militello, dell'Università di Catania



Scicli, 11 gennaio 1693. Dopo la scossa, Palazzo Ribera era ancora lì, integro e maestoso, velato da una cortina di polvere e fumo e circondato dai pianti dei sopravvissuti, dai lamenti dei feriti, dall’assordante silenzio dei morti.
Il sisma era durato tanto. Troppo. “Lo spazio di un miserere”, avrebbero scritto coloro che ebbero la fortuna di raccontarlo. Due lunghissimi minuti, durante i quali la terra aveva dondolato, sussultato, e distrutto l’intera città. Nel sestiere di Altobello, sulle pendici della collina della Croce, solo un altro palazzo aveva resistito: quello dei Terranova Cannariati, incastonato, più in alto, tra le rocce, a vegliare sulle macerie e su quel che restava, ormai, del paese.
A Palazzo Ribera regnava il silenzio: non silenzio di morte, ma d’abbandono. Già da diversi anni i “baroni” si erano trasferiti, ed erano rimaste solo le pietre a ricordare la storia, breve, di una delle più importanti famiglie sciclitane.
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A volerne la costruzione era stato – ne siamo quasi certi - il cavaliere Don Mattias de Ribera, un venturiero spagnolo (forse di Toledo) che aveva deciso di trascorre a Scicli il resto di una vita trascorsa perigliosamente. Da soldato, aveva servito per nove anni il Re, e nel 1565 aveva deciso di andare a difendere Malta dal grande assedio dei Turchi ottomani. Lì aveva partecipato ad un’ azione eroica: con un piccolo mortaio pieno di pezzi di ferro e catene, era riuscito, insieme ai compagni, a respingere un pericoloso assalto dei Turchi. Per questo aveva ricevuto non solo la croce dal Gran Maestro, ma anche l’onore del ricordo, ché nel 1602 il cavaliere Giacomo Bosio avrebbe raccontato il gesto nella Istoria della sacra religione et illustrissima militia di San Giovanni Gerosolimitano.
Nel 1567 Mattias de Ribera si trasferì a Scicli, dove venne nominato comandante della Sargenzia, a capo delle truppe di quell’estremo lembo di Sicilia che era diventato frontiera contro i Turchi infedeli. Qui, all’età di quasi trent’anni, decise di cambiar vita, e diede inizio alla sua ascesa sociale ed economica.
Prese in sposa Cassandra Ascenzo e, con lei, una ricca e preziosa dote. Certo, la bellezza della moglie non era pari alla ricchezza; ma pazienza: se ne sarebbe fatto una ragione. Subito dopo consolidò sempre più, per sé e per i propri figli, il prestigio della famiglia. Dapprima chiese ed ottenne l’ingresso di Vincenzo (1583) e Centurio (1597) tra i Cavalieri professi dell’Ordine di Malta. Purtroppo, però, entrambi i figli morirono prematuramente: Vincenzo forse a Licata; Centurio a Scicli, dove venne sepolto nella chiesa di San Giovanni. Successivamente Mattias, poco prima che la morte lo cogliesse, nel 1602, fece sposare il figlio più scapestrato, Guglielmo, con Donna Laura, figlia del barone Ferdinando Caro di Licata, e lo fece diventare, come lui, Sergente Maggiore. Ma, soprattutto, fece laureare Girolamo (il figlio più intelligente e posato, il vero erede della casata) e lo fece sposare con la “vedova” donna Giovanna Di Stefano dei baroni di Donnabruna (ricca e matura nobildonna, giunta già alle sue seconde nozze), preparandogli così la strada che lo avrebbe portato a raggiungere, nel 1622, l’incarico di Giudice della Gran Corte della Contea.

Certo, in questo percorso non mancarono gli incidenti, come quando Guglielmo e il suo giovane figlio Mattia (il nipote di Mattias, cui venne dato il nome del capostipite) vennero coinvolti nell’omicidio del sacerdote don Andrea Martinez. Questi era caduto nelle grinfie ammaliatrici di una prostituta, una bellissima donna che attirava (e sfruttava) le attenzioni dei suoi clienti. Il sacerdote era folle d’amore, e quando il vicario generale gli proibì di frequentare la donna, divenne pazzo di gelosia: minacciava i “clienti” della donna, la seguiva senza sosta e la controllava, dimenticava persino di recitar le messe ; tutto questo fin quando, la notte di un sabato, vicino alla casa della prostituta (non lontano da Palazzo Ribera), venne ucciso a colpi di spada.
Tutti pensavano a un delitto passionale, quando il fratello della vittima accusò don Guglielmo Ribera e il giovane Mattia di aver commesso l’omicidio per l’odio nutrito nei confronti del sacerdote. E a tal fine portò pure dei testimoni, che avevano udito uno spaventoso cozzare di spade e un calpestio precipitoso di uomini in fuga e che, tra le ombre della notte, avevano riconosciuto i due nobiluomini.
Lo scandalo stava travolgendo la famiglia. Occorreva che qualcuno sistemasse le cose. E questo qualcuno non poteva che essere il giudice Girolamo Ribera.
Questi, innanzitutto, fece nascondere i due accusati nel convento del Carmine e fece loro indossare gli abiti religiosi e quelli gerosolimitani: in questo modo li strappò dalle grinfie della giustizia civile e li consegnò a quelle, più gestibili, della giustizia ecclesiastica. Forte, poi, del prestigio di giudice e delle numerose amicizie altolocate, fece arrestare la donna, i testimoni e anche i vicini, e li fece incarcerare, prima nel castello di Scicli e, subito dopo, in quello di Modica. Qui, rinchiusi in “dammusi” bui come la morte, torturati ripetutamente, interrogati notte e giorno, i poveri diavoli alla fine ritrattarono tutto. La famiglia Ribera era salva. E al povero fratello del Martinez non restò che rinunciare all’accusa e pagare pure le spese.

Malgrado questo incidente di percorso, nel 1638 i Ribera arrivarono all’apice della loro ascesa sociale e, finalmente, comprarono dal Re di Spagna ben tre titoli di Barone: uno andò al giudice Girolamo (Barone di Santa Maria La Cava), uno al di lui figlio Giuseppe (Barone di Montagna Rossa) e il terzo, infine, al giovane nipote Mattia (Barone di San Paolino).
Durante questi decenni – lo abbiamo detto – don Mattias e i suoi eredi pensarono pure a costruirsi un superbo palazzo. La facciata di pietra di taglio, le merlature, le finestre a sesto acuto e, all’interno di queste, gli scudi con le tre fasce dei Ribera: tutto concorreva a render la magione degna di un viceré. E, infatti, nel 1642, quando il conte di Modica e viceré di Sicilia, Don Giovanni Enriquez de Cabrera, venne a visitare il regno (ma soprattutto a controllare che le proprie terre non venissero usurpate), fu proprio in questo palazzo che venne ospitato dal barone Girolamo Ribera.
Insieme al conte vi erano la contessa (con un “corteggio” di sedici dame e diciotto paggi), il figlio e la nuora (con sei dame e otto paggi) e, a dar retta allo storico Antonino Carioti, un seguito di ben tremila persone. Lungo la strada che dal Piano dell’Oliveto portava a palazzo, vennero eretti archi trionfali, paramenti di seta, tappezzerie con i ritratti del conte, tabelle con elogi in italiano e latino, mortaretti, fontane di acqua e di vino, cori di voci e di strumenti e, soprattutto, un aggeggio meccanico (il “trabucco”) dove, in alto, stavano appesi ventiquattro ragazzini (poveri figli!) che giravano in tondo per la meraviglia degli ospiti. Il viceré soggiornò diversi giorni nel “ricco alloggio” dei Ribera, e questa ospitalità consacrò definitivamente il prestigio della famiglia.
Fu, però, da questo momento che il ramo principale, quello di Don Girolamo e donna Giovanna Di Stefano, cominciò lentamente ad avvizzire. Il loro primogenito, Giuseppe, non riuscì ad avere eredi. Sua sorella, Cassandra, diede alla luce un solo figlio, morto giovane senza lasciare discendenti. Alla fine restò solo il patrimonio familiare, quasi 50 mila scudi, che Girolamo, nel 1646, decise di lasciare ai Gesuiti, contribuendo a finanziare il progetto di Giuseppe Micciché di costruire un collegio anche a Scicli. Pochi anni dopo anche donna Giovanna, ormai “vedova Ribera”, seguì l’esempio del marito, fondando, accanto alla Chiesa di San Giovanni, il monastero delle Benedettine, al quale lascerà una rendita annua di 200 onze.
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E il superbo palazzo Ribera ? Che fine fece quel “ricco alloggio” che tra le sue stanze arrivò ad ospitare persino un viceré ?
Come abbiamo detto, già prima del terremoto il palazzo venne abbandonato. A metà Settecento fu, poi, inglobato nel Collegio di Maria, un educandato che gli Sciclitani chiamavano “il Ritiro”. Un nome appropriato per il nostro palazzo, ché l’architetto che progettò il Collegio pensò bene di chiudere tutto dietro un alto muro con un loggiato di nove arcate, all’interno delle quali avrebbero dovuto essere collocate le grate, o “gelosie”, per nascondere al mondo le “donzelle morigerate”.
E ancora oggi il nostro palazzo è lì, ritirato e nascosto. Ma chi passa dall’antica Via Maestra di San Giuseppe ed alza lo sguardo in mezzo alle arcate, può ancora scorgere (come viso di donna dietro le grate di una “gelosia”) la superba facciata con gli antichi stemmi, che rievocano ancora, tra le nebbie del tempo, la storia passata della famiglia Ribera.

Nota bibliografica
Sulla famiglia Ribera sono stati qui utilizzati principalmente le Memorie istoriche di Giovanni Pacetto (manoscritto ristampato nel 2009 a cura di A. Sparacino) e i lavori di Mario Pluchinotta : le Memorie di Scicli (II ed., Scicli 1932); il Blasonario della Contea di Modica (Siracusa 1934) e il manoscritto Genealogie di famiglie sciclitane (1957 ca) conservato a Scicli presso la biblioteca privata degli eredi Pluchinotta-La Rocca. Sull’argomento si veda anche G. Barone, Costruire il blasone. Note sulle aristocrazie della Contea nel Seicento, in Le passioni dello storico, a cura di A. Coco, Catania 1999, pp. 43-81 (in particolare le pp. 50-52).
Sui Ribera nel Settecento si veda l’articolo di “Un Uomo Libero”, Giò Pio De Piro: la chiave di un mistero, in rete all’indirizzo http://www.ragusanews.com/articolo/27991/gio-pio-de-piro-la-chiave-di-un-mistero (ultima consultazione: 21/03/2015).
La vicenda dell’omicidio Martinez è riportata in S. Santiapichi, Scicli nel Seicento, Modica 1911, pp. 5-8. La visita del viceré a Scicli è descritta in A. Carioti, Notizie storiche della città di Scicli, ed. a cura di M. Cataudella, Scicli 1994, vol. I, pp. 215-218. Per il testamento di Girolamo Ribera si veda G. Poidomani, Gli ordini religiosi nella Sicilia moderna, Milano 2001, p. 192.
Le principali informazioni su Palazzo Ribera in M. Pluchinotta, Cenni sulle case di alcune famiglie di Scicli, a cura di A. Sparacino, Rosolini 2012, pp. 44-45. Sul palazzo e sul Collegio di Maria (Ritiro) si veda P. Nifosì, Scicli. Una città barocca, Scicli 1997, pp. 163-165.
Ringrazio Claudio Magro per aver attirato la mia attenzione su Palazzo Ribera e aver, così, fornito lo spunto per questo articolo.

Didascalie.

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In copertina, Veduta di Scicli prima del terremoto del 1693 (a destra il sestiere di Altobello). Particolare dal San Guglielmo dipinto da Antonino Manoli del 1723 e conservato presso la Chiesa Madre di Scicli (Foto Claudio Magro). 

Quindi, Facciata di Palazzo Ribera, dall’interno del collegio del Ritiro (Foto Luigi Nifosì).


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