Madrid - Ci sono oggetti anche umili che sanno restituire davvero il profumo di un’epoca. Spesso non sono stati importanti per il periodo nel quale sono comparsi ma, come avviene nei naufragi con i relitti, si caricano della responsabilità di testimoniare la realtà perduta.
È il caso dei calendarietti che regalavano negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento i barbieri.
Non ricordo quelli stampati durante il fascismo o a cavallo della Prima Guerra Mondiale, anche se mio padre e mio zio me ne parlavano.
Ricordo invece perfettamente quelli del Secondo Novecento.
Un ricordo non solo visivo ma olfattivo. Erano impregnati di un profumo forte, oggi lo classificheremmo dozzinale. Un profumo che aveva la funzione di coprire l’odore di stantio degli abiti lucidi di grasso dei clienti del barbiere.
Si conservavano gelosamente nei grossi portafogli, nelle tasche delle giacche o dei paltò.
Raramente si sfogliavano ma la gioia di possederli era davvero grande.
Un calendarietto irresistibilmente ha marcato la mia infanzia.
Durante l’estate o nel tempo di Natale mio padre aveva deciso di trovarmi un’occupazione. Non avevo dieci anni.
Una sera, la scuola aveva appena chiuso i battenti per la pausa estiva, mi chiamò e disse con un viso serio e compassato:
- Ormai sei grande e devi pensare ad apprendere anche un mestiere.-
Per questo motivo aveva preso accordi con mio padrino che era barbiere. Avrei fatto apprendistato nel suo salone, dunque.
Rimasi perplesso, senza parole.
Ero un ragazzino timido e difficilmente reagivo.
Mio padrino, un uomo mite, tarchiato, il giorno dopo mi aspettava col migliore dei suoi sorrisi.
In una sala da barba che non era neppure tanto grande, ci muovevamo a fatica oltre i clienti quattro ragazzi e lui, che era il maestro. C’erano tre grandi poltrone che s’inclinavano o si sollevavano azionando delle piccole leve. I clienti, coperti da veri e propri lenzuoli bianchi, parevano pupi di carne di cui mio padrino, un autentico mago delle fiabe, modellava con consumata perizia le teste, i visi.
Mi spiegò con molta pazienza e infinita tenerezza che dovevo stare in piedi vicino a lui per “rubargli dalle mani il mestiere”. Pronto a passargli le forbici, il pennello da barba, il rasoio quando li avrebbe richiesti o ad affilare per ore i rasoi in una specie di staffile che pendeva in un angolo riservato della sala.
È ovvio, io non avevo nessun desiderio di rubare niente a nessuno ma gli altri tre ragazzi, di cui uno, Peppino, già in età puberale bello tosto e cresciuto, mi guardarono subito con gelosia e sospetto, come se fosse arrivato il cocco di famiglia.
Mio padrino a Peppino faceva “spuntare” i capelli dei clienti tra un taglio e l’altro o passare la saponata sulle facce dei meno esigenti.
Più tardi, quando cominciai a farmi furbo, sorpresi il ragazzo a ripassare, di nascosto, col rasoio l’incipiente peluria puberale che già si annunciava robusta sul suo viso nel desiderio di vederla crescere subito omogenea e forte.
Gli altri due erano, invece, gli spazzini. Mio padrino alla fine di ogni taglio di capelli li chiamava per nome ad alta voce. Loro accorrevano ubbidienti come scimmiette, con scopa in mano e paletta rimuovevano le ciocche cadute a terra.
L’estate passò così tra un taglio di capelli e l’altro. Il mare non andava tanto di moda per i poveri in quel tempo.
Alla fine di ogni servizio tra me e gli altri due piccoli mocciosi s’innescava una vera e propria lotta per la conquista della spazzola con la quale pulire dagli ultimi peli il cliente ormai libero del lenzuolo, bello e profumato.
Di solito vincevo io e, anche se non arrivavo neppure al petto dei signori, questi ultimi generosamente premiavano la buona volontà del gesto.
Per evitare un vero ammutinamento, mio padrino un giorno mise su uno scrittoio un salvadanaio di gesso nel quale comandò che s’introducessero tutte le mancette.
Ce le avrebbe divise per Natale.
Natale.
Durante le vacanze natalizie di quell’anno ritornai al mio apprendistato.
Mio padrino ci riunì una sera tutti e quattro a porte chiuse, additò un grosso pacco che il postino aveva recapitato in mattinata e c’informò che erano già arrivati i calendari.
Erano piccoli almanacchi conservati dentro fragili custodie di carta velina profumatissima, spesso realizzati in carta patinata disseminata di paillette e strass.
Un elegante cordoncino di seta tratteneva le loro pagine piegate.
Mio padrino divise i calendarietti in due mucchietti. Uno lo sistemò a sinistra del primo cassetto dello scrittoio. Erano i calendarietti illustrati con soggetti tratti da opere liriche, quell’anno l’opera prescelta era Otello di Verdi.
L’altro lo sistemò, dopo aver scrupolosamente contato i pezzi, a destra del cassetto.
Ci spiegò che a ogni cliente bisognava consegnare come omaggio natalizio il calendarietto di destra o di sinistra seguendo le sue indicazioni.
E così fu.
Dopo la spazzola, mio padrino mi guardava e mi diceva destra o sinistra secondo il gusto o l’età del cliente ed io gli consegnavo il calendarietto prescelto.
I più richiesti, ovviamente, erano quelli di destra nei quali donnine procaci e discinte, che forse erano attricette americane, sorridevano ammiccanti e felici.
Questi ultimi erano riservati alla clientela giovane o poco matura e a qualche vecchietto impenitente e arzillo.
Le battutacce non mancavano e i doppi sensi si sprecavano al riguardo.
Una sera Peppino scomparve. Più volte mio padrino chiese di lui. Ma di Peppino non c’era traccia.
Riapparve dopo qualche oretta, aprendo la porticina del piccolo bagno ricavato in un angolo appartato del locale. Rosso in viso come una melagrana, gli occhi bassi.
Mio padrino aprì subito il cassetto dove erano custoditi i calendarietti, velocemente li contò e capì che ne mancava uno. Quello delle donnine.
In disparte chiamò Peppino e gli ingiunse di vuotare le tasche.
Il calendarietto apparve galeotto e complice.
Mio padrino gli mollò un ceffone.
-Perché gli hai dato uno schiaffo? – Chiesi con molto candore e tanta ingenuità. Ma non ricevetti risposta.
L’indomani mia madre non mi risvegliò presto come gli altri giorni e, quando le chiesi il perché, mi rispose che ormai sotto Natale il mio apprendistato era finito.
-E le mancette? – Balbettai io fra le lacrime.
Qualche giorno più tardi sul mio comodino trovai un mucchietto di spiccioli.
-Ecco la tua parte. – Disse lei contenta con un sorriso.
Peppino non l’ho più rivisto.
Dopo tanti anni, già grande e invecchiato, seppi che i soldi delle mance li aveva messi mia madre sul comodino.
Di quel periodo curioso della mia vita mi resta ormai solo il ricordo di un calendarietto gaglioffo che ha segnato anche per me la fine di un’epoca.
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Foto di Armando Rotoletti