Scicli

Il ciclismo che gioiosamente canta e quello che non conta

Il protocollo della partenza



Scicli - Questa estate ho assistito ad una gara di giovanissimi di ciclismo a Scicli in località Zagarone, organizzata dal G.S. Caruso di Ispica. Da tanto tempo non subivo un simile contagio di emozione. I bambini, nel loro impegno istintivo, appassionato e genuino, emozionano fino alle lacrime.
L’atmosfera era quella amichevole tipica delle gare ciclistiche che bene conosco per antica consanguineità. Gruppi di persona convenute da varie provenienze per un confronto agonistico di bambini e ragazzi. Per ripararsi dalla calura di un sole a picco in un pomeriggio torrido di fine luglio, tutti rinzeppati sotto la sfrangiata provvidenziale macchia d’ombra dei pochi alberi. Tra i grigi edifici di una zona artigianale deserta, non c’è un bar, né un posto attrezzato per la sosta. Tra quei tetri volumi produttivi, la domenica dormienti, è andato in scena lo spettacolo della passione ciclistica.

Il protocollo della partenza è il solito codificato: ritiro numero, misurazione rapporto, appello, allineamento … quindi: via. Nelle partenze dalla categoria G1 alla G7, l’entusiasmo e crescente e anche le tattiche si mettono meglio sulla strada. Nelle prime categoria, considerati i pochi chilometri, i piccolissimi ciclisti partono subito al massimo delle loro possibilità, le posizioni difficilmente si rimescolano, dal primo giro all’arrivo si dilatano i distacchi, poco le classifiche. Nelle partenze dei più grandi, un tatticismo si scopriva.

In cima alla strada in salita, il respiro rantolante dei bambini raschiava i polmoni e irritava la gola. I visi paonazzi rendevano pubblico lo sforzo. Il sudore si cristallizzava in sfilacciate isole di sale. Non hanno risparmiato fatica i ragazzi, testimone l’ansimare nel transito in cima alla lunga anche se leggera salita.
I genitori incitavano. In alcuni casi incitavano anche troppo, caricando di responsabilità i giovanissimi pedalatori che, confusi dal vociare assordante, insicuri amministravano le microscopiche biciclette.
L’esagerazione è nei genitori. I bambini giocano, i genitori li fanno sentire campioni. A troppe delusioni ho assistito in tanti anni di ciclismo. Tanti ragazzi ho visto spinti dall’inerzia dei genitori partire verso le terre di ciclismo, poi mestamente tornate. Quasi tutti venuti al Nord, sono poi desolatamente rincasati. L’esperienza fuori dall’isola è sicuramente edificante. Si può essere campioni per i genitori e per affetto o proiezione delle personali aspettative, ma è la strada il giudice unico e ultimo.

Dopo la corsa, li ho visti addentare un panino con il salame … rilassati e bellissimi!
Dopo la corsa il loro recupero è quasi istantaneo, si acquieta il fiatone e si attenua il colorito carico di fatica.
Dopo la corsa - come in tutte le vicende importanti – si scoprono certe complicità che esistono tra persone che carnalmente si appartengono. Basta uno sguardo dagli occhi verdi della mamma. A volte basta persino un silenzio a fare recuperare fatiche e certezza di sé.
Ogni incoraggiamento non è mai un vuoto a perdere. Li ho tutti incoraggiati e idealmente accarezzati perché apprezzo l’impegno di chi, ancora così piccolo, è un adoratore della fatica. Fatica unica mistica di questo severo sport.

I bambini spesso corrono e si impegnano, perché se c’è una sensazione a cui teniamo: è che le persone che amiamo siano orgogliosi di noi. E non per gratificazione altrui, semplicemente perché la mamma possa dire: “sono orgoglioso di te” è una delle frasi d’amore più potenti che esistano. Questa è una speciale forza. E un padre, una mamma lo sanno.
Dopo l’arrivo, nello sfinimento totale, negli abbracci sono gli equilibri che li fanno rimanere in piedi, dopo il labile pedalare nell’incertezza della linea delle due ruote. E non c’è niente che ti rigenera di più di un abbraccio quando si è messo il piede a terra, dopo aver fatto una gara allo stremo delle forze in bilico su due ruote. 
Che un figlio sia arrivato primo, secondo, terzo o ultimo non cambia. Per chi ti ama davvero, l’importante è che il figlio sia arrivato fin lì all’arrivo, dando tutto se stesso.
Vincere non è tutto e perdere è niente, lo ripeto da decenni. Se non volete adulti problematici, questo convincimento è l’abbraccio migliore che potete dare ai vostri figli. Questo è un abbraccio stabile e rassicurante di non essere soli, perché li fa stare saldi su quattro gambe nell’abbraccio. Non importa essere campioni, è più importate essere figli, essere persone sane mentalmente e psicologicamente forti. Noi non siamo eroi consapevoli. Forse gli eroi neanche esistono. Ci sono gli uomini e c’è l’amore.

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Questo è il ciclismo fertile che gioiosamente canta, che va incoraggiato e sostenuto. Nella squadra di giovanissimi Aquila Ganzaroli di Firenze - che conosco e frequento - sono stati cresciuti tanti giovanissimi fino al passaggio tra i professionismo. Ne cito uno tra i più noti: Daniel Oss. Per un Daniel Oss o un Paolo Tiralongo che riesce, miglia sono gonfiati dai genitori per un’affermazione di loro stessi, con il pericolo che nell’insuccesso i ragazzi cadano nella trappola della rivalsa a tutti i costi delle gare amatoriale.

Quello amatoriale è un ciclismo che non conta, sterile nelle risultanze e nei presupposti. Pratica dopolavoristica senza futuro e che assorbe risolse ingenti che potrebbero esser destinate ai giovani che hanno possibilità e piacere dell’agonismo sano come scuola di vita e poi, non dimentichiamolo, sono la società che ci sostituirà. Il ciclismo amatoriale porta a alimentare la ricerca del successo personale in chi è perdente nella vita vera e cerca di curare, con le vittorie a tutti i costi, personalità complesse e insoddisfatte. La domenica per un riconoscimento di un vanto pubblico, mettono a repentaglio la loro vita generando difficoltà alle famiglie intere. Un rimedio salvavita che serve per curare malattie renali e nei dializzati o patologie neoplastiche, viene usato per aumentare l’eccesso di salute, ma l’organismo può dare – oltre ai tribunali - sentenze severe.

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