Cultura Scicli

Il Natale di Gisa

Il racconto di Amelia Cartia su La Sicilia



Scicli - La musica, già, si versa nella strada. Musica di zampogna, musica di festa e di tradizione, musica che dichiara da sola cosa vuole evocare, e Chi vuol festeggiare.

Il Natale, in via Penna, a Scicli, si sente con tutti i sensi, e si sente subito. Prima che si aprano le porte, e prima che inizino i giochi - magici - della consuetudine.

Segui la musica, sfiori i mascheroni barocchi di Palazzo Beneventano, ché quelli, per una volta, una volta all'anno, non vogliono essere i protagonisti della notte che aspetti. Segui la musica, ti inerpichi lungo una salita, che pare un vicolo, ma è una strada maestra, e nasconde i tesori di un'immaginifica verità. Si fa forte, la musica, nessuno canta ma bastano le note a superare la barriera - già labile - del grande portone di legno. Via Penna, citofonare Penna. Adalgisa Penna.
Suoni, e non succede niente. Solo la musica, ancora, invade la strada. Più forte di prima, più festosa di prima.

Non ha sentito, pensi, non è in casa. Poi, piano, passi risuonano sulle scale. Qualcuno ha sentito, qualcuno viene ad aprire. Scende, e già il visitatore sa di non potersi aspettare altro, ché nel secolo in cui d'improvviso si sente ricatapultato non c'è mica un altro modo per aprire le porte. Uno spiraglio, appena, tra il legno della porta e la pietra del muro, uno spiraglio, appena, e in mezzo non ci puoi credere. In mezzo, c'è un mondo inatteso.
L'avessero vista i fratelli Grimm, Gisa Lorefice, vedova di Camillo Penna, ramo cadetto di una delle più nobili famiglie degli Iblei, avrebbero scritto su di lei l'Enciclopedia delle fiabe.
Settanta e fischia anni portati in saltelli, la signora è al di là del portone, ma è attraverso di lei che passa l'ingresso a tutto un mondo di tangibile - per quanto singolare - favolosa verità. Alle spalle del suo scialle verde e dei suoi occhiali spessi è Nazareth, tutta, e non sembri uno scherzo. Alle spalle di Gisa, si accende il buio di pietra della sera sciclitana, si accende di inattesi colori e di luci festose.

Si apre la porta, e spalanca le bocche d'inatteso stupore. Oltre la soglia, Gisa. E fa parte, anche lei, della scena sacra che ogni anno rinnova, con le sue mani, con il lavoro delle sue braccia e la curva della sua schiena. Fa parte, anche lei, del teatro di legno che da decenni allestisce nell'ingresso della sua casa coniugale: statuina tra le altre, personaggio di fantasia in virtù della realtà che invece è. E' un monumento il presepe di legno antico, che cinquantanove anni fa la sposina Gisa, appena entrata nella casa del marito, ha deciso di restituire a vita e splendore, e di mantenere, come su un palco, al centro dei suoi mille e mille impegni. Intorno a lei tutto è favola: del suo presepe si favoleggia, e delle statuine di Gesù Bambino che più che collezionare la signora custodisce. E della sua forza, morale, prima che fisica, che la porta a occuparsi di tutto ciò che è suo, da sola. Senza aiuto per sbrigare i lavori nelle tenute («Sul trattore vado, e coi mezzadri ci lavoro io»).

Senza aiuto per tenere pulita - come uno specchio, letteralmente - la pur grande casa dove ogni oggetto è reliquia e monumento. «Arrivai sposina - racconta - che avevo diciannove anni. Ero una ricamatrice, nel convento dove sono cresciuta dall'età di cinque anni, e lì mio marito mi venne a cercare. Arrivata qua, non è che ho smesso di lavorare, anzi. Ho visto che il cuoco puliva la moquette del salone strofinandola con mazzetti di "erva o' muru" (la parietaria, ndr.). E mi tiravo indietro? Ho imparato e lo faccio così anche io. Vuole vedere come?». Si inginocchia, per mostrarlo, la giovanissima vecchietta, nel salone dove - vuole la favola - di quando in quando viene ad accomodarsi Vittorio Sgarbi, quando passa da qui. Si inginocchia, Gisa, e pare un grillo, che invidia. Così, ogni giorno, da cinquantanove anni, la magica Gisa si prende cura della sua casa, da sola, in un ciclo di perenne pulizie che dura sette giorni a settimana, e all'ottavo ricomincia. Una favola.

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Tutto è favola, tra quelle mura. Come tutto è favola, a Scicli. Scicli, tutta, non ha nulla che sia consuetudine. Crocevia di tre valli, scrigno di pietre barocche custodito dai monti che isolandola la salvaguardano dalla feroce modernità che divora ciò che dalla valle resta fuori. Scicli, tutta, la meraviglia sospesa nel tempo, si riversa in via Penna, quando viene Natale, e con lei l'Italia, e mezzo mondo: tutti, come i Magi, seguono la stella fino a una grotta ben strana, una grotta barocca rivestita di luce, la casa di Gisa. Tradizione, più sacra che profana, quella del pellegrinaggio alla sua casa, quella della contemplazione del suo presepe, quella della creazione di un mito, di un personaggio. Gisa, la carabiniera. Gisa, la donna di ferro.

«Sulu Gisa, sulu Gisa, ppi favuri». Sazia di nomi, noncurante dei titoli, la piccola fortissima donna di Scicli, nata a Bengasi durante la grande guerra, nel suo presepe accoglie, e del suo presepe è parte.
«Ieri - esordisce - sono venuti dei turisti a bussare alla mia porta per vedere il presepe, ché lo sanno tutti che questo presepe è una meta, e vengono a visitarlo. Mi sono affacciata alle scale, e il capo fila del gruppo mi ha salutata. "Veniamo da La Spezia, ma io sono mezzo sciclitano", ha detto. Quando ho chiesto chi fossero i suoi parenti a Scicli, per capire se fosse una famiglia conosciuta, mi ha risposto: "Gisa è la mia parente! Sono sciclitano perché ogni anno vengo dalla Liguria a vedere questo presepe, torno per Gisa". Figuratevi, io nemmeno lo avevo riconosciuto, tanti sono i turisti che ricevo ogni anno».
Un personaggio tanto carico d'immaginazione da non poter essere che reale, Gisa. Tanto concreto da poter ispirare mille romanzi.
La sua storia e la sua casa sono per Scicli leggenda, ed è anche a lei che si deve, almeno in parte, la costruzione di quella leggenda che di Scicli ha raccontato un pezzo di storia, non da ultimo sullo schermo cinematografico, con la regia di Alessia Scarso.
«Italo tutti i giorni veniva, sissignore. E sempre qua è, cammina con me». Italo, il cane meticcio che un giorno chissà come si è autoeletto spirito guida per tutta la città, la prima tappa, l'ha fatta in via Penna. Ogni giorno, per ogni anno, allo stesso orario («Alle quattro del pomeriggio, mi grattava alla porta»), il labrador spurio bussava alla porta. Che era l'ora del thé. «Le fette biscottate gli davo. Mulino Bianco, che erano buone. Gliele spezzettavo e gliele davo da mangiare, mentre lui stava con la testa sulle mie ginocchia. Poi io potevo andare a messa, e lui in centro». In centro, a prendere servizio. Come guida turistica, come mascotte del luogo, come cane da guardia e da compagnia. «Mai mi lascia, Italo», dice la padrona che mai lo volle possedere, e dicendolo lo indica. «L'ho fatta fare io, la statuina di Italo. Sta nel presepe, insieme alla scena della natività, con il suo collare argentato. Quello gliel'ho fatto fare in gioiellieria, a Modica: c'è il nome inciso sopra. In nero, così spicca. Se lavoro al piano di sopra, me lo porto su. Se lavoro qua, lo poggio sulle scale».
Cosa seria è il lavoro, per Gisa. Che ha sempre lavorato, senza mai smettere. «La carabiniera, mi dicono. E un suo collega scrisse che "un'altra come Gisa non c'è", lo scriva». Scritto, è stato scritto. Da più parti. La favola di Gisa ha travalicato muri e confini, e spesso anche la stampa nazionale si è imbattuta in questa favola in occhiali e scialle, che racconta: «la carriera politica? Per carità! Il sindaco volevano armi fare, l'assessore alla cultura. E come dovevo fare io, dove lo trovavo il tempo?». Il tempo. Ne serve di tempo, per essere Gisa. Casa, campagne, chiesa. E presepe. «L'erba, l'erba: la vede? L'ho fatta arrivare da Catania, e l'ho sistemata io, tutta, in ginocchio. Ci ho messo tre notti. E i cestini con le offerte, li vede?». Eh, carrubbe, mandorle, pane di casa... saranno mica veri. «Come no? E che devono essere? Veri sono, il pane lo faccio io, lo impasto e lo lascio lì tutto l'anno. E il vino. I fiaschi di vino arrivano oggi. Quello buono, non è che è per "scialare"». Quant'è barocca, Gisa. Quant'è ridondante, rococò. Quanta anima che versa, nell'accudire, per tutta la vita, l'immagine ripetuta del Figlio di Dio fatto Uomo.

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E ti meravigli, ma la curiosità ultima, ti viene alla lingua solo al momento del commiato. Perché tutto questo, signora Gisa? «Signorina, due guerre ho passato. Scappammo da Bengasi che c'era la guerra, e arrivammo qua che ne trovammo una peggiore. Io al Signore non smetto di dire grazie».

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