C’è un film, più di ogni altro, che racconta dal punto di vista umano, tremendamente umano, il sequestro Moro: “Buongiorno, notte” diretto da Marco Bellocchio. Un film del 2003, sospeso fra il reale e l’onirico, amatissimo dalla critica, dai parenti di Moro e da tutti coloro che hanno una certa propensione per il cinema d’autore e d’impegno civile. Ispirato al libro dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti, la narrazione mescola finzione e realtà, con immagini d’epoca che riescono a rievocare perfettamente in clima di quegli anni.
La vita di Chiara, interpretata da una superba Maya Sansa, è divisa fra l’essere “un soldato” e la banalità comune. Man mano che i giorni trascorrono, però, comincia ad avere dei dubbi sulla sua missione e sull’opportunità di uccidere il prigioniero. Nessuno le vieta, sul finale, di sognare un finale alternativo: una liberazione di Aldo Moro, sulle note di Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd. Il film non racconta, infatti, la triste morte dello statista autore del “compromesso storico” e non ha nulla a che vedere, ad esempio, con il film “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara del 1982, dove Moro era interpretato da Gian Maria Volonté.
Qui, infatti, la protagonista assoluta è Chiara, con le sue certezze messe in discussione dai 55 giorni di prigionia, con il suo sogno di vedere, infine, Moro libero tornare a casa dai propri cari. La visione di Bellocchio, infatti, è politicamente distaccata. Aldo Moro, interpretato da Roberto Herlitzka, è già rassegnato alla morte, vittima sacrificale di quello Stato che, proprio attraverso la sua morte, riuscirà ad uccidere, definitivamente, il prestigio delle Brigate Rosse. L’umanizzazione dei carcerieri, scelta stilistica del regista, e il continuo parallelo con la loro vita da reclusi, non tanto diversa, poi, da quella di Moro, dona al film un tratto inconsueto, diverso.
I rapitori, dunque, diventano anche loro inconsapevoli prigionieri, fagocitati da un sistema che non riescono a capire fino in fondo (le scelte politiche della DC e quindi dello Stato) e la loro missione di soldati, costretti dal loro punto di vista all’omicidio per mantenere la loro credibilità. E nel loro cieco operare, da paladini della “super sinistra” diventano praticamente uguali ai soldati fascisti. I quattro brigatisti del sequestro Moro, sembra suggerirci Bellocchio, non hanno burattinai, strategie, o chissà che altro dietro. Gli unici a cui rendono conto sono le altre colonne delle BR.
La tesi del regista è coraggiosa: Moro è morto perché abbandonato da uno Stato che non volle trattare coi brigatisti nemmeno rilasciando qualche prigioniero malato in cambio della vita dello statista (linea davvero inconsueta per uno Stato italiano abituato a compromessi di ogni tipo), e perché i brigatisti non si accorsero neppure di essere stati ingoiati da un gioco troppo grande. L’episodio, non a caso, segna la fine della fascinazione che questo gruppo aveva su molti giovani. In fondo, il sacrificio di Moro alla ragione di Stato, ha giovato a molti.