Verona - La cantina Gulfi al Vinitaly 2018 si pone con l’eleganza spontanea di chi è sicuro del fatto suo, consapevole della propria storia e della propria tradizione e fedele a un territorio e a un lavoro a cui tutto deve. Se dici Gulfi dici anche Nero d’Avola, due nomi intrecciati assieme da tempo, come la collaborazione tra il compianto Vito Catania, testimone della tradizione vinicola di famiglia, e l’enologo Salvo Foti, direttore tecnico che ci accoglie allo stand all’interno del padiglione Sicilia.
Come si pone la Cantina Gulfi all’interno dell’evento più atteso del 2018?
La nostra è un’azienda radicata, che potremmo definire storica, il Vinitaly è la conferma di come sia arrivata ad affermarsi sul mercato, con clienti fidelizzati che tornano a trovarci e nuovi che si avvicinano per la prima volta. La nostra specificità è quella di esprimere il Nero d’Avola non come vitigno ma come diversi vini legati ciascuno al proprio territorio, alle diverse contrade. Già circa vent’anni fa abbiamo selezionato la zona sud orientale della Sicilia, quella di Pachino che però comprende anche zone limitrofe: ognuna dà un apporto unico al vino in base al terreno quindi non possiamo parlare di un unico Nero d’Avola, quanto piuttosto dei Neri d’Avola. Questa la filosofia di Gulfi. Abbiamo voluto tradurre e rispettare queste differenze nell’imbottigliamento: sono le diversità, le particolarità a dare l’unicità al vino.
Territorio e lavoro: che rapporto hanno i due elementi che amate ricordate in cantina?
Bisogna puntare sulle persone del territorio, sulla formazione: è fondamentale che la manodopera agricola abbia delle specifiche competenze viticole. Bisogna “vivere col vigneto”, metterci umanamente qualcosa di personale, affiancare qualcuno che lo conosce già e imparare il mestiere. Un’operazione come la potatura è di fatto una costrizione che si fa alla natura, è importante saperla fare bene. La formazione dovrebbe essere come quella che si faceva un tempo ad esempio per i muri a secco o altri lavori manuali: è importante imparare il lavoro sul campo, nei vigneti nel nostro caso, come una volta era andare in bottega.
Come si concilia la tradizione con i tempi moderni?
Un tempo bisognava contare sulle grandi quantità per farsi conoscere, bisognava mandare tante bottiglie ad esempio in Giappone, ed era quindi esclusiva prerogativa delle grandi aziende. Ormai il mondo è cambiato, grazie alla globalizzazione anche i produttori più piccoli hanno la possibilità di farsi conoscere: la comunicazione avviene online, poi si cerca di suscitare curiosità con l’assaggio, fidelizzando il cliente, invitandolo in cantina, infine si vende online. Un tempo chi produceva vino non era la stessa persona che lo vendeva, oggi invece il viticultore fa tutto nella filiera produttiva e questo ha aperto il mercato a una miriade di aziende.
Come è cambiato il Vinitaly nel corso degli anni e come si pone nel 2018?
Il Vinitaly prima serviva solo per vendere e a partecipare erano per lo più i traders. Oggi invece vengono un po’ tutti i tipi di consumatori e l’obiettivo non è più concludere affari quanto piuttosto intrecciare contatti umani: gli accordi si prendono dopo, la fiera serve a farci conoscere, ci si confronta col singolo e con chi poi dovrà trasmettere a sua volta le proprietà del nostro vino. Molti ci conoscono e tornano, è un rapporto che si consolida di anno in anno e tra un’annata e l’altra. È importante che il consumatore si senta partecipe, che assaggi e ci dica la sua, il feedback è fondamentale. Il Vinitaly è una fiera di condivisione, del resto il vino stesso è condivisione.