Scicli - Della fine del Quattrocento a Scicli si sapeva ben poco o nulla. Da sempre ha fatto testo il libro di memorie dell’Arciprete Antonino Carioti. Tutti gli scrittori di storia patria hanno attinto a piene mani da questa fonte senza neppure preoccuparsi di verificare le notizie in essa contenute.
Ho dimostrato varie volte che Carioti aveva una conoscenza indiretta delle cose. Per i tempi in cui l’Arciprete scriveva, era normalissimo rifarsi a lavori di altri autori o a notizie di seconda e terza mano che poi puntualmente citava.
Oggi disponiamo purtroppo di pochissimo materiale, perduto a causa dell’incuria degli uomini o per note calamità naturali (terremoti e alluvioni). Tuttavia, studiando il poco che è rimasto, forse è ancora possibile ricostruire per sommi capi il mosaico della storia sciclitana, aiutandoci magari proprio con qualche indicazione fornita dal Carioti.
Ho dedicato questo tempo di fine anno 2018 allo studio sistematico del Notaio Matteo Melfi che esercitò a Scicli dalla fine del Quattrocento in poi. Sul suo legato frammentario (appena dieci bastardelli ci sono pervenuti, custoditi presso l’Archivio di Stato di Ragusa sezione di Modica) mi riprometto di scrivere più ampiamente in una prossima occasione.
Qui voglio, invece, ricostruire attraverso delle cronache lasciate dal notaio e con l’aiuto di qualche suo atto un momento felice della città di Scicli che non ho esitato a definire il suo “Rinascimento”.
Come ebbi già ad affermare in un recente saggio, apparso su questo giornale on line Ragusanews qualche mese fa, (cfr: La Scicli di seconda metà Quattrocento del notaio Giuliano Stilo, 31.12.2018), la città viveva nella seconda metà del Quattrocento un impressionante boom economico. Solo in parte questo exploit fu disturbato dall’editto di espulsione degli ebrei emanato dai Re Cattolici e cogente in tutti i loro domini.
Testimonianze indiscutibili di tal mal celato benessere sono le grandi “marammate”: cantieri, cioè, o lavori che riguardavano la costruzione di nuove chiese o ricostruzione e ampliamenti delle esistenti, la costruzione d’interi agglomerati abitativi che sorgevano nella zona periferica di espansione detta dell’ “Auluvitu” (quartiere Oliveto), le opere d’ingegneria civile e idraulica che furono eseguite a Scicli per rendere migliore la qualità della sua vita.
Il 28 gennaio 1489 il “costruttore” Guglielmo Belguardo terminava di erigere l’imponente campanile addossato all’abside della “Parrocchiale” di San Matteo Apostolo (la chiesa di San Matteo non era ancora Matrice). Il campanile è lo stesso che crollerà per effetto del terremoto del 1693, rovinando sul tetto del Duomo.
Della sua costruzione Carioti dà notizia riportando un’iscrizione scolpita a futura memoria sul lato dello stesso che “guarda al Castelluccio” (v. Carioti/Cataudella, vol. II, pag. 354).
Era vescovo di Siracusa Dalmazio. Anna Cabrera, la contessa di Modica, aveva sposato Fadrique Enríquez, il figlio dell’Almirante di Castiglia, cugino di Ferdinando il Cattolico felicemente regnante.
Sempre Carioti c’informa che:
“con lodevole emulazione l’università a benefizio del pubblico con poche altre buon’opere produsse prima del ‘500 e furono per lunghissimo tratto li acquedotti per sotterranei canali della copiosa fontana del giardino di S. Maria la Nuova, e vi condusse l’acqua a ripartirla ne’ pozzi particolari sino alla piazza detta della fontana. Compose un commodo vivaio a dissetarvisi i domestici cavalli, muli e somari de’ singoli nazionali: lo abbiamo nel 1505, notar lorenzo Vaccaro 11 maggio 8ª indizione.” (Carioti/Cataudella, vol. I, pag. 202)
Non capisco e non condivido il pessimismo dell’Arciprete sopra espresso a proposito delle scarse opere prodotte dall’università nel periodo indicato. Con buona probabilità al Nostro mancava il dato che, invece, ho ritrovato io concernente la grande fontana rinascimentale eseguita proprio da Guglielmo Belguardo, lo stesso che aveva costruito il campanile della Parrocchiale di San Matteo.
È, infatti, a compimento dell’acquedotto che dava alla città un aspetto molto più moderno di quanto si potesse immaginare a quei tempi che Guglielmo Belguardo firma la fonte rinascimentale che darà per tanti secoli il nome alla piazza più importante della città, uno spazio urbano, quest’ultima, sapientemente ripensato per ospitarla. La piazza cambierà nome solo nel primo Novecento.
Non è per niente peregrino ipotizzare, allora, che dietro tutto il progetto dell’acquedotto ci fosse proprio lui, Guglielmo Belguardo.
La fontana fu inaugurata il 21 luglio 1509 con grande concorso di popolo dai tre giurati pro tempore: Giovanni Antonio Erizzi, Antonio Erizzi e DamianoTorres. Costò diciotto onze d’oro.
“21 julij, XIIª ind., 1509 fuit expedita fons, magno concursu populi in terr/o Xichilj pro nob/ Johannis Antoninus et Antoninus de Ericzijs et Damianum de Torres, Jurat/ fabricatores/
Dopno Mag/r Guillelmus de Belguardo in dicta fabricatione/
in ... oz/ aur/ xviij”
Questa data rappresenta, dunque, l’inizio dell’epoca moderna per la città di Scicli.
La Piazza della Fontana, ahimè!, grazie alla sua nuova centralità urbana, non fu solo un posto ameno e un punto d’incontro, divenne in seguito tristemente famosa per innalzarsi in essa il patibolo e come luogo delle torture (v. Carioti/Cataudella, vol. I, pag. 172).
Finito il campanile della Parrocchiale di San Matteo, bisognava provvederlo, dunque, dell’orologio e della campana.
Sempre secondo Carioti (che cita il notaio Xifo), l’orologio fu installato sul campanile il 10 febbraio 1499 (v. Carioti/Cataudella, vol. I, pag. n. 222).
Il contratto per la campana fu, invece, stipulato il 18 settembre 1508 tra il Magister Antonino Cosima della Terra di Tortorici (comune siciliano in provincia di Messina famoso per la presenza di diverse antiche fonderie) e il Presbitero della Parrocchiale Antonino Zinza.
Il maestro campanario s’impegnava a fare la campana
“cum ingenio, arte, industria et labore... et se solemniter obligavit facere quaddam campanam mitalli ponderis duarum cantariorum et ... xxxv maxime et non ultra pro servitio ecclesie Sancti Matthei parrochialis ecclesie ditte Terre Xichili.”
Il maestro chiedeva come compenso per il suo lavoro due onze d’oro a parte il vitto e l’alloggio, garanti i Giurati Antonino de Erizzi e Andrea Denaro. Ergo la campana fu fusa a Scicli. Assicurava di consegnare l’opera nel mese di agosto successivo (1509).
Siccome il peso della campana avrebbe potuto oscillare tra duecento e duecentotrenta chili, come specificato nel contratto, il maestro si era offerto di aggiungere, anticipandola, la quantità mancante di metalli, salvo essere poi risarcito a consegna ultimata dell’opera dal presbitero Zinza.
Il Cosima, inoltre, prometteva di eseguire il lavoro a regola d’arte (facere di bonu sono) e di “culare et reculare” la campana fino a quando sarebbe riuscita perfetta.
La garantiva, infine, già montata “per annos quatuor sonando ad motha polita in campanile”.
Testimoni del contratto furono: Don Joannes di Vaccaro, il nobile Michele di li Volti e Petro Sturnello.
La famiglia Belguardo abitava con probabilità alla Vignazza e vantava parecchi interessi nel mondo dell’edilizia. Ho trovato diversi atti che attestano la sua presenza in questo rione di Scicli.
Antonino Belguardo, per esempio, era un costruttore. Il 31 maggio 1504 fu citato per danni da alcuni speculatori ai quali non aveva consegnato alla data stabilita un quartierino di quattro case da costruire all’ “Auluvitu”.
La fontana e la conseguente sistemazione dello spazio pubblico sul quale fu eretta con la nuova zona di espansione dell’Oliveto suggellavano, dunque, la definitiva fuga della città dall’antico claustro murato.
Scicli finalmente si liberava dalla “clausura” del colle San Matteo.
“Chiafura” altro non fu che la corruzione dell’abusato termine notarile “clausura”, infatti. Il Melfi lo impiega con molta disinvoltura e frequenza nei suoi atti per descrivere semplicemente un luogo recintato grande o piccolo non necessariamente lontano dalla città anzi spesso ubicabile in quel trogloditico quartiere.
Con Chiafura sono crollate tante fantastiche narrazioni del passato sostituite, però, da verità che vale la pena conoscere e propagare.
Scicli è ancora in fuga verso il mare per una perenne fame di spazi liberi che dura da più di cinquecento anni e Chiafura, la grande “Clausura” fatta di piccoli e infiniti recinti, ormai dal 1960 è solo uno spettrale cimitero d’anime. La Storia, unica e vera Magistra vitae, grazie a queste nuove scoperte, ha confermato entrambi questi dati oggettivi rendendo di una verità e di un’attualità sconvolgenti la celebre frase dell’Ecclesiaste: “Nihil novum sub sole”.
CREDITI
Archivo General de Simancas
Archivo Histórico Nacional de Madrid
Archivio di Stato di Ragusa, sezione di Modica
Carioti Antonino, Notizie storiche della città di Scicli, a cura di Michele Cataudella, Comune di Scicli, Vol. I e Vol. II, Comune di Scicli, luglio 1994
Pellegrino Francesco, Scicli e il suo Duomo – San Matteo e la ricostruzione dopo il terremoto del 1693, The Dead Artists Society, 2017
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