È stato il primo giornalista televisivo ad entrare nei reparti Covid degli ospedali italiani durante il lockdown, aprendoci gli occhi su cosa stava realmente accadendo alle migliaia di connazionali colpiti dal virus. L’inviato Alessio Lasta è tornato in onda su La7 in queste settimane con le telecamere di “Piazza Pulita”.
In queste prime puntate ti stai occupando del cosiddetto fronte negazionista. Si, coloro insomma che ritengono che l'emergenza sia un'esagerazione, che gli ormai 36mila morti non siano morti di Covid ma con il Covid e che la pandemia sia un'invenzione delle elites mondiali che si arricchiscono alle spalle del popolo. Non ti sembri una contraddizione: proprio io che ho visto da dentro la situazione delle terapie intensive a marzo e che so a cosa potremmo di nuovo andare incontro, mi immergo ora in un racconto che attraversa un'insoddisfazione profonda, specie in alcune frange della popolazione e che mette spesso in relazione fake news sul Covid con l'emergenza economica che ne è derivata. Non significa sdoganare i negazionisti. Piuttosto metterli di fronte alle loro responsabilità, con dati e cifre della scienza ufficiale che ne mostrino gli errori. Non ho mai creduto a un giornalismo che abbia paura di sporcarsi le mani, anche dando voce a posizioni, diciamo così, eretiche. Un giornalista racconta, senza timore, ma con la forza dell'evidenza. Il movimento negazionista, in Europa per esempio, ha mobilitato centinaia di migliaia di persone. E' un fatto. Non si tratta di dar loro voce, si tratta di porsi nei confronti di queste posizioni con spirito dialettico, forti del dato di realtà che loro negano, studiando bene cosa dice la scienza ufficiale per rispondere con consapevolezza agli stregoni del virus. Non è affatto facile, ma dopo essermi occupato dell'emergenza nei mesi caldi e del grande tema dei tamponi, dei test sierologici e del tracciamento, arrivati - specie in Lombardia - in grave ritardo, ritengo che il tema del negazionismo sia l'altra faccia di un virus che evidentemente non ha preso solo i nostri corpi, purtroppo.
Come stai vivendo questo momento di attesa, in cui si è tornati a seguire con ansia i numeri dei contagi quotidiani e le disposizioni del governo? Si fa spesso l'errore di guardare solo il dato avulso. Fermandoci alle cifre dei contagiati giornalieri, del numero dei ricoverati e dei pazienti in terapia intensiva si corre il grande rischio di relativizzare la situazione, perché sono numeri in valori assoluti lontani da quelli di marzo e aprile. Invece i dati vanno letti nel loro incremento crescente nelle ultime settimane e questo ci deve fare riflettere per prima cosa su quel principio di responsabilità individuale richiamato più volte non solo dal premier Conte, ma anche dal presidente della Repubblica, con l'invito a non abbassare la guardia, a indossare la mascherina, a mantenere la distanza sociale. Tuttavia non basta. Non si può chiedere agli italiani lo sforzo di rispettare le regole e nello stesso tempo condannarli alla penuria di mezzi pubblici che creano di fatto l'affollamento nelle ore di punta; alla mancanza – per molte regioni ancora – del numero minimo di 14 posti letto di terapia intensiva ogni centomila abitanti, previsto dal Governo a maggio scorso per evitare di trovarci di nuovo impreparati; all'assenza, ancora oggi in molti ospedali, di percorsi Covid differenziati nei pronto soccorso; alla mancanza di personale infermieristico e medico in molte strutture; all'attesa infinita della cassa integrazione che per alcuni non è ancora arrivata; alla contraddizione evidente di un Paese in perenne deficit di organizzazione, capace sempre di mettere toppe laddove le cose non funzionano e non invece a pensare una riorganizzazione del sistema che consenta di non replicare gli errori del passato. Succede non solo per il Covid. E' uno dei mali peggiori che affligge l'Italia.
L’anno scorso, qualche giorno prima che scoppiasse l’emergenza internazionale, è uscito il tuo primo libro, “La più Bella. La Costituzione tradita. Gli italiani che resistono” edito da Add: storie di quotidiana violazione di diritti e doveri che dovrebbero essere tutelati dalla nostra tanto decantata Carta. Poi il lavoro ti ha catapultato in trincea e le presentazioni sono state rinviate. E’ un viaggio da Bolzano a Palermo lungo un'Italia di dimenticati, di persone semplici che affrontano calvari quotidiani da premio Nobel per la pazienza, se solo ci fosse: dalla penuria di case popolari alla mancanza di lavoro, dallo sfruttamento nelle serre dei peperoni al Nord, fino al dramma dei truffati dalle banche. Di fatto il libro è un lungo reportage, scritto con gli occhi del cronista e con l'attenzione dell'uomo che si mette in viaggio per raccontare. Questo lavoro ti dà il grande privilegio di poter vivere un pezzo delle vite degli altri. Le persone che ti stanno di fronte sono storie che incontrano la tua. La relazione nasce sempre dall'incontro di due o più storie. E un avvenimento diventa fatto se qualcuno lo può raccontare. In qualche modo il giornalismo è un po' sempre militante, quando la militanza non è presa di posizione preconcetta, ma diventa denuncia a tutela delle fasce più deboli della popolazione. Diceva il grande Ettore Mo che “un racconto senza aggettivi non è mai riuscito a nessuno”. E aveva ragione. Io dico sempre che noi giornalisti non siamo nelle storie che raccontiamo, non siamo il protagonista aggiunto della storia che abbiamo di fronte. Quando questo avviene il baricentro si sposta necessariamente sul narcisismo del giornalista, per cui finisce che i protagonisti non sono più le persone che vuoi raccontare ma diventi tu. E questo è un errore. Tuttavia se non siamo nella storia che raccontiamo, dentro quella storia però dobbiamo assolutamente starci. Perché da lontano si vede male e perché, in fondo, chi ti legge e chi ti guarda percepisce se il tuo è un racconto vero, onesto, sincero, con un'anima.
Due storie sono siciliane: la prima s’intitola “Granditalia”, l’altra è quella che chiude il libro. “Granditalia” racconta il sogno di un siciliano che aveva lasciato tutto per andare all'estero ma poi, vinto dalla nostalgia per la propria terra, decide di ritornare e tra mille difficoltà di aprire un piccolo bar. Un sogno semplice, ma che si rivelerà nello stesso tempo un cappio, costringendolo a confrontarsi con le maglie di una burocrazia e di una tassazione che spreme sempre gli stessi. Il secondo racconto siciliano si chiama “Ai capaci e meritevoli” e parla di dispersione scolastica, uno dei mali che affligge ancora oggi alcuni territori del nostro Paese e che rischia di tarpare i sogni dei nostri giovani. Racconta la storia di Paolo, un adolescente del quartiere Zen di Palermo, che purtroppo deve smettere di andare a scuola per aiutare la propria famiglia, in condizioni di estrema povertà. E' tra i racconti più intensi del libro e mi ha colpito molto emotivamente. Come va a finire lo lascio scoprire ai lettori.