«La cosa più bella del mondo è naturalmente il mondo stesso. Johnny ti auguro un magnifico compleanno. Vinci! Tuo nonno». E’ il biglietto d'auguri allegato a un pallone da volley, spiaggiato su un’isola inabitata con i resti di un volo merci precipitato in mare, su cui l'unico superstite del disastro aereo disegna i tratti essenziali di un volto umano. Quando sentiamo la parola Cast Away, a 20 anni dall'uscita del film, il pensiero - prima ancora che a Tom Hanks - va a Wilson: un palmo aperto insanguinato impresso sulla sfera, un graffito ancestrale, una mano di Fatima, un'icona araldica arrivata fino ai giorni nostri sotto forma di emoij, a simboleggiare un saluto arcaico. La drammatica scena in cui il protagonista abbandona la zattera faticosamente costruita che lo sta riportando alla civiltà, per provare a riacciuffare la faccia rotolata in acqua, è una sequenza da storia del grande cinema. Salvarla, per l'ex manager Chuck Nolan, è in quel momento quasi più importante della sua vita: fino ad allora era stato quello scarabocchio senza espressione la sua salvezza psichica, l’artificio mentale che gli ha permesso di domesticizzare la solitudine e l'isolamento, di dare parvenza d'umanità all’assurdo e, paradossalmente, di non impazzire del tutto. Col suo silenzio Wilson gli è stato vicino nel percorso di riscoperta di se stesso, dandogli finalmente l’occasione di ascoltarsi, di trovarsi. Gli ha fornito un servizio di identificazione, necessario per rintracciare la propria identità. Lui l'ha accompagnato e seguito, col suo sguardo fisso e imperturbabile, nelle sfide con cui la natura l'ha messo alla prova mentre i colleghi e la moglie, l'affascinante Helen Hunt, lo cercavano. «Non è che per caso hai un fiammifero, vero?» gli chiede a un certo punto Nolan provando ad accendere un fuoco. La disperazione, quando lo perde per sempre tra i flutti dell’oceano, è quella autentica che si prova per le persone in carne ed ossa.
Nella testa di Nolan scatta più o meno lo stesso meccanismo psicologico descritto da Feuerbach nell’Essenza della religione, che portò l’uomo ad antropomorfizzare il fiume, il bosco, il fuoco - ogni elemento fondamentale alla sopravvivenza - per avere così l’impressione di poterci interagire, di poterlo invocare e convincere. Dare occhi, naso e bocca all’inanimato illude che l’entità creata ascolti e capisca davvero. Invocare un viso è senz’altro più gratificante che inginocchiarsi davanti a una montagna o pregare un fulmine: dava al primitivo, come al contemporaneo, la sensazione di avere più chance di potervi intercedere, di riuscirne a influenzare la volontà. Per questo sono 20 anni non solo di una pellicola cult, dal respiro epico, con cui Robert Zemeckis ha ridefinito un genere letterario oltre che cinematografico dipingendo un moderno Crusoe. Sono soprattutto 20 anni di Wilson: il simulacro, il feticcio che ci ha stregato più della stessa trama perché ci ha rimesso inconsciamente in contatto con la nostra notte dei tempi. E a quella notte, da cui riparte il naufrago, ci trasporta il regista, in una sorta di time lapse delle ere preistoriche. Ci riporta all’infanzia dell’umanità, ma anche alla nostra: all’amico immaginario, l’orsacchiotto o la bambola a cui parlavamo, con cui dormivamo. L’ontogenesi ricapitola la filogenesi: il percorso di crescita ed emancipazione del singolo individuo, dalla nascita alla maturità, ripercorre il cammino dell’essere umano. Ecco perché ci siamo affezionati anche noi a quel pallone, e ci s’inumidiscono gli occhi quando scompare all’orizzonte inghiottito dalle onde. Riavvolge il nastro nei confronti di due tempi paralleli: il nostro, esclusivo e personale, e quello collettivo dell’uomo. Per questo Nolan vuole, deve portarlo con se, nel suo disperato “ritorno al futuro”.
A riprese ultimate la palla fu battuta all’asta per quasi 20mila dollari. La Wilson Sporting Goods, il brand che ispira il nome, iniziò a riprodurla in serie ufficiali e oggi è in vendita pure su Amazon a una quindicina di euro. Cinque anni fa a New York, durante una partita di hockey a cui stava assistendo, Hanks fu raggiunto in tribuna da uno di questi palloni lanciato da uno spettatore: la carrambata tra i due diventò un video virale in Rete. La multinazionale sportiva americana non è stata più la stessa: cliccando "Wilson" sui browser la prima immagine che appare è il fedele compagno di quell'eccezionale Tom Hanks. Solo il gladiatore Russel Crowe poté soffiare l’Oscar alla “coppia”. Perché il duo è inscindibile. Gli MTV Movie Award nominarono a sorpresa Hanks e Wilson insieme, nella categoria "miglior coppia"; riconoscimento che ottennero effettivamente ai Teen Choice Award, nella sezione "miglior alchimia". Anche per giornalisti e produttori, insomma, Wilson era un attore vero: si aggiudicò il Critics’ Choice Award come miglior oggetto inanimato, e una raffica di citazioni in decine di serie tv successive. Una curiosità: la donna con cui Hanks è sposato da 32 anni si chiama Rita Wilson. Ma, avendola conosciuta prima del pallone, è certo che sia solo una coincidenza.