Vittoria - Il 31 dicembre, si sa, è dedicato ai bilancio dell’anno che sta per volgere al termine, alle “to do list”, ai buoni propositi per l’anno che verrà.
Fare il bilancio di questo 2020 non è difficile. Anzi risulta molto facile e credo che per la prima volta all’unanimità si può affermare che è stato un anno sciagurato, nefasto, funesto. Si potrebbe riempire un’intera pagina di sinonimi dei più terribili aggettivi e non basterebbero a descrivere il disagio e il malessere fisico e psicologico che quest’anno dalle cifre gemelle ci ha causato.
Abbiamo combattuto (e non si sa ancora per quanto dovremo combattere) contro un nemico invisibile, un virus maledetto che dallo scorso febbraio ci costringe a vivere come all’interno di un film di fantascienza.
Abbiamo perso padri, madri, figli, sorelle e fratelli.
Abbiamo perso la libertà e la socialità, diritti inderogabili dell’uomo che fanno parte della sua natura-base. Siamo animali sociali, nati per la condivisione, lo stare insieme.
Ci nutriamo dell’amore, dell’affetto, del respiro, dei sorrisi degli altri.
Non ci bastiamo da soli. Lo diceva anche Platone. L’uomo è completo quando da espressione di sé e di quello che è in mezzo agli altri e con gli altri.
Il maledetto Covid-19 ci ha tolto tutto questo.
Ci ha lasciati monchi per le perdite subite. Ci ha depressi tra le quattro mure delle nostre case, ci ha impoveriti affettivamente, culturalmente ed economicamente.
E’ un bilancio negativo che non lascia spazio nemmeno ad uno spiraglio di positività, ma non potrebbe essere altrimenti.
Ma gli uomini sono fatti per rialzarsi. E le nostre speranze sono tutte rivolte nei confronti di chi ha tirato fuori competenze e anni di studio per salvarci da quest’incubo.
Un vaccino salva-vita che ci restituisca la nostra esistenza, per come la conosciamo, per come l’abbiamo sempre vissuta, perché i ‘caduti’ e i ‘martiri’ di questa guerra non restino solo nomi e cognomi, apostrofati come ‘vittime’ del Covid-19, ma perché si sono immolati in nome della salvezza di chi è rimasto su questa terra a combattere.
Mio padre (Gianni Molè) è uno di questi. E come lui tanti altri.
Penso ai medici Angelo d’Errico e Francesco Cannizzo, o all’infermiere Gianni Russo.
Una scia di lutti cominciata proprio con il ricovero di mio padre all’Ospedale Guzzardi di Vittoria.
Viene da chiedersi se c’è una qualche coincidenza. Potrebbe anche essere, ma questo non possiamo essere noi a stabilirlo, ci vogliono le autorità competenti.
E per questo motivo, io attendo l’8 gennaio quando il caso di mio padre verrà preso in esame da un’equipe di medici per fare luce sulla sua prematura scomparsa, per stabilire se è stato solamente il maledetto virus a portarselo via o c’è stata una qualche negligenza.