Siracusa - Dopo che, per via delle sanzioni a Putin, le banche hanno smesso di anticipare le fatture a Isab, l’azienda s’è trovata a ricevere credito solo dai proprietari russi della Lukoil e, di conseguenza, a non poter acquistare petrolio che da loro. L’embargo via mare è stato il colpo di grazia a quello che nel panorama energetico attuale è l’anello debole di una catena che rischia di sciogliersi a fine anno. Il Polo industriale siracusano è dominato da una interconnessione impressionante fra tutte le realtà che l’affollano: la già citata Isab, Sonatrach Raffineria Italia srl, Sasol Itay, Versalis spa, Erg srl, Air Liquide Italia e l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Sicilia Orientale.
News Correlate
Come una matrioska: Isab fornisce nafta alla Versalis in cambio di materie prime; Sonatrach a sua volta fornisce materie prime a Sasol, che le trasforma e le restituisce in parte come jet fuel anche a Versalis; Air Liquide vende prodotti finiti e idrogeno sia a Isab che a Sonatrach; e via dicendo. La conseguenza di questa fitta ragnatela di rapporti è che, se una sola delle aziende dovesse fermarsi, “l’intero comparto entrerebbe in una crisi difficilmente risanabile” secondo Palazzo d’Orleans, che punta su questa argomentazione per convincere l’esecutivo Draghi a dichiarare lo stato d’emergenza per l’intero petrolchimico, e sbloccargli denaro pubblico in caso di stop. In tutto il Polo - escluso il porto di Augusta, quarto in Italia per dimensione - operano circa 7.500 addetti diretti ed indiretti.
Saldatori, meccanici, tubisti, valvolisti, elettrotecnici e sistemisti. Risorse umane qualificate e specializzate che, per il ridursi della manodopera richiesta, sono state utilizzate anche in appalti assunti all’estero dalle imprese locali. Da turbina dell’Isola, il distretto aretuseo ora ne è il tallone di Achille, per la sua totale dipendenza dal petrolio russo da cui occorrerebbe sganciarci per salvare l’Ucraina: una realtà fragile in una delle zone più vulnerabili di un Paese impreparato, con un debito elevato e una politica balbettante. Una richiesta, in realtà, inoltrata da Confindustria molto prima della guerra ucraina perché la crisi non è nuova e da tempo il Polo perde valore come una specie di Ilva 2.
La chimica è scarsamente competitiva rispetto all’Oriente, le alte emissioni di Co2 incompatibili con gli standard di salute e la sostenibilità ambientale, la tassa europea del carbonio rende l’attività svantaggiosa. Come il Covid – spesso paragonato a una guerra – ha accelerato la digitalizzazione già in nuce, così sarebbe auspicabile che adesso il conflitto velocizzasse la riconversione energetica verde in corso, mirando a una sostenibilità di lungo periodo dell’industria siciliana, tanto strategica per la nazione: un tema che va al di là dell’emergenza contingente. Nella vicina Carlentini, ad esempio, Eni sta coltivando un progetto per la produzione di idrogeno verde. Il governo deve agire in anticipo, sapendo che un’ingente iniezione di capitale sarà probabilmente inevitabile.