Gli ispettori hanno di fatto simulato un furto per vedere se il cassiere se ne accorgeva.
di Redazione
Siena – A Siena un uomo di 62 anni, una vita passata alla cassa di un supermercato e al fianco delle colleghe e dei colleghi come delegato sindacale, si ritrova a casa dall’oggi al domani. Il suo nome è Fabio Giomi, lavoratore del Pam di Porta Siena dal 2012, delegato Filcams Cgil dal 2015, una moglie invalida da assistere. Il suo licenziamento arriva il 27 ottobre, dopo quello che l’azienda definisce un “test interno”: il famoso metodo del “cliente invisibile”, o “test del carrello”.
La scena è semplice, e proprio per questo inquietante. A fine ottobre, Giomi si trova in cassa. Davanti a lui non c’è un normale cliente, ma un ispettore mandato dall’azienda. Nel carrello, tra le casse di birra, vengono nascosti alcuni piccoli articoli.
Il lavoratore non li vede, non li batte allo scontrino. A quel punto l’ispettore si qualifica e il test diventa una contestazione disciplinare: per l’azienda, basta questo per il licenziamento in tronco. È la seconda volta che Giomi viene sottoposto a questo tipo di prova: mesi fa il “test” si era concluso senza conseguenze, stavolta no.
In pochi giorni il sessantaduenne passa dalla cassa al silenzio della disoccupazione. A pagare il prezzo non è solo lui, ma l’intero equilibrio familiare: dietro il numero di matricola c’è un reddito che salta, una moglie invalida, un’età che rende più difficile ogni ricollocazione. È il volto concreto di quelle parole che nei comunicati restano astratte: ansia, frustrazione, precarietà.
La Filcams Cgil di Siena non parla di “semplice caso aziendale”, ma di un segnale allarmante. Il sindacato denuncia una strategia ben precisa: l’uso del “cliente invisibile” come strumento di controllo e di pressione sui dipendenti, in particolare su quelli più anziani, con contratti più costosi e, spesso, con un ruolo sindacale dentro il punto vendita. Non è un dettaglio che il test sia stato ripetuto in poco tempo proprio sul delegato del negozio.
La Cgil insiste su un punto che sembra elementare ma che, nei fatti, viene negato: i cassieri non sono poliziotti. Il loro compito è battere la spesa, non smascherare strategie di furto studiate a tavolino.

Se un cliente – vero o finto – decide di occultare un prodotto, trasformare la mancata individuazione in un sospetto di complicità o in un licenziamento per giusta causa significa scaricare sul singolo lavoratore responsabilità che andrebbero semmai affrontate con altre misure, a partire dall’organizzazione del lavoro e dalla sicurezza.
Nel caso di Siena, poi, le domande aperte sono molte. Esiste un regolamento interno che prevede e disciplina questi test? Con quali tempi, con quali garanzie per il lavoratore? A oggi, i sindacati dicono di non averne visto traccia.
Sul fronte aziendale, invece, il silenzio. Contattato per una replica, il gruppo Pam ha fatto sapere di non voler rilasciare dichiarazioni sulla vicenda del lavoratore di Siena. Nessuna spiegazione pubblica sulle ragioni che avrebbero reso inevitabile il licenziamento di un dipendente con oltre dieci anni di anzianità, nessuna parola sulla scelta di trasformare un test interno in un atto che cambia la vita a una persona e alla sua famiglia.
Resta un punto politico di fondo, che va oltre il singolo supermercato. In un settore già segnato da turni spezzati, salari bassi, contratti part-time spesso involontari, l’uso di strumenti come il “cliente invisibile” rischia di spostare ancora di più l’ago della bilancia: da una parte il potere unilaterale dell’azienda, dall’altra lavoratrici e lavoratori costretti a vivere ogni giorno come se fossero sotto esame, in un’eterna prova che può essere ripetuta “a sorpresa” senza diritti di difesa certi. È anche questo che il sindacato chiama “problema di democrazia”.
A Siena, intanto, lo stato di agitazione è stato proclamato. La storia di Fabio Giomi, che fino a poche settimane fa passava la spesa sul nastro di una cassa e oggi si ritrova fuori dal negozio per un test costruito a tavolino, diventa il simbolo di un confine sempre più labile tra controllo e abuso, tra sicurezza e disciplinamento, tra responsabilità e scaricabarile. Sta a chi lavora – e a chi osserva – decidere se considerarla una semplice “questione aziendale” o il segnale di un modello che, in silenzio, rischia di normalizzarsi.
I casi di Tommaso e Davide a Livorno
I casi descritti sono due. Il primo è quello di Tommaso, storico dipendente del punto vendita di Corea, colpito dall’ormai famigerato “Test Carrello” trasformato in imboscata. “Ispettori che nascondono prodotti, provocazioni alla cassa, pressioni psicologiche. Una trappola studiata per farlo sbagliare e giustificarne il licenziamento”, scrive ancora Bardi.
L’altro lavoratore finito nel mirino è Davide, oltre 20 anni di anzianità, “bersagliato da contestazioni continue e infondate. Un’escalation disciplinare – dice Bardi – costruita ad arte che ha portato al suo allontanamento. Due storie diverse, stesso destino: lavoratori “troppo giovani per la pensione, ma già considerati vecchi da buttare”.
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