L'idea di un mezzo-Ignazio o menzognaccio
di Un Uomo Libero.


Madrid – Apprezzo sempre gli articoli di Silvana Grasso, specialmente quelli in cui fa riferimento al siciliano, alla letteratura siciliana, alla storia, alla cultura e tradizione della Sicilia.
Io, come lei, sono un fervente sostenitore di tutto ciò che ha a che fare con l’Isola. All’estero mi presento (anche se subito mi correggono o mi identificano con la mafia) solo come Siciliano perché lo sono nel profondo dell’anima. Perché da piccolo mi sono innamorato della mia terra.
Anch’io, come lei, alle elementari ero discriminato, bollato per la mia estrazione popolare che mi faceva parlare “a carcaràra”. I bambini che provenivano da un ceto medio borghese non parlavano ufficialmente la mia lingua. I loro genitori li obbligavano a distinguersi e a esprimersi in un italiano che spesso era maccheronico, assediati com’erano, poverini!, da tanti ragazzini come me provenienti da quartieri popolari e poveri.
Non saprei dire se quei genitori fossero più ridicoli di tanti altri genitori d’oggi che riprendono ancora i loro bambini solo perché usano il dialetto.
La lingua fa parte del nostro “essere”.
È una complessa stratificazione di vite e lacrime.
Dimenticarla o ripudiarla è un peccato empio, più empio di uccidere la madre.
Sono state alcune politiche culturali scellerate, prima messe in atto dallo Stato fascista, poi dalla Repubblica italiana, a decretare questa lunga agonia del Siciliano. Che non è un dialetto ma una vera lingua nella quale curiosamente manca il tempo futuro.
Quasi per un’antica e annunciata maledizione.
Nonostante tutto, il Siciliano ha resistito a tutte le intemperie storiche, a tutti i cretinismi ideologici, a tutte le bufere pseudo culturali.
Scopro che le nuove generazioni ritornano a cercarlo come linguaggio naturale, a usarlo negli slogan pubblicitari, a venderlo sulle magliette o nei gadget con la fierezza di appartenere non più a una sola razza ma a tante in una.
Mi conforta l’interesse con il quale ragazzi mi chiedono il significato di una parola, di un verbo, di un’espressione tipica della nostra parlata come se io fossi più vecchio di Noè.
Proprio in questi giorni, ritrovo nella stampa locale un termine in parte dimenticato dalla mia stessa memoria, impegnato in un gioioso gioco di doppi sensi che solo il Siciliano può consentire ancora.
E faccio fatica a ricordare. Poi, subito, l’evocazione di un tempo, mediata dalla parola, mi ricompensa e mi folgora.
È il caso di “bruciarièddu”, “jérmutu” e “timúgna”, “spagghjàri”, “paliàri” e “annittàri”, “susca” e “sbrivuliàri”, parole legate alla trebbiatura.
O di “Mienzarànciu” e “Mienzugnàziu” per esempio. Parole antiche siciliane che esprimono una misura.
Il primo era un grosso recipiente molto concavo e capiente che poteva essere di rame o di altro materiale ma anche di ceramica.
Dell’altro, invece, ricordo più significati. Spesso dati da chi lo usava.
Mio padre m’indicava, bambino, con quel termine una mezza botte, che fungeva da tino, nella quale si metteva a fermentare l’uva già pigiata prima della successiva spremitura.
Ma mia zia, più vecchia di lui, con quel termine chiamava un fazzoletto di terra, attiguo al baglio della nostra casa di campagna, dove erano state seminate delle viti un tempo.
Nulla a che fare con qualcuno che si chiamasse Ignazio, dunque, come potrebbe, di primo acchito, sembrare.
E così anche “vitamina”. Anticamente “vitàmina” poi abbreviata in “vitàmi” significò, appunto, vigna, vigneto.
Una parola dietro l’altra, tutte restituiscono una Sicilia arcaica che non c’è più.
Avverto perfettamente l’odore della paglia appena trebbiata o l’altro più pungente delle vinacce fermentate, lasciate appassire al sole di settembre, assaltate da nugoli di mosche inferocite, sotto il piano del Carmine, dove per molti anni fu attivo un palmento.
Avevamo delle vigne. Si vendemmiava all’alba e per tutta la mattinata. Arrivavano i cugini da Sampieri con i loro carretti, il giorno prima della vendemmia. E poi, tutti insieme allegramente, a riempire di dorati grappoli d’uva i “cufini”, enormi ceste di vimini a semi cono.
Anche “cufino” è scomparso dal nostro vocabolario; come “rutúna”, una rete di corda che serviva a trasportare la paglia appena trebbiata dall’aia al fienile, e “Viértuli”, “vardúni”, “tistéra” “busázza” termini tutti riferiti alla cavalcatura e al cavaliere.
La vecchia ed elegantissima“damatrice” di mio zio fu dimenticata per decenni sotto un albero di carrubo, le aste come lunghe braccia in preghiera rivolte verso il cielo. Si ostinava a sopravvivere al delirio collettivo scatenato dal boom economico degli anni Sessanta che aveva imposto l’automobile.
Una notte d’inverno, durante il temporale, un fulmine colpì il carrubo e con i suoi rami anche quell’aristocratico relitto si trasformò in un falò osceno.
Rimasero ancora a lungo, sotto la pioggia e il sole, le sue parti metalliche colorate di una ruggine antica.
Ma anche quelle sparirono un giorno per incanto, forse rubate da un pazzo in un raptus di forte nostalgia.
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