L'età di Nerone
di Silvana Grasso

Siracusa – Sangue. Un magnifico color di sangue maturo, invecchiato come un vino di qualità, vegliato negli anni da lampi di gioventù. Se fosse un quadro, sarebbe un Caravaggio la Fedra senecana, color di sangue, in cartellone quest’anno al Teatro greco di Siracusa. Nella lettura di questa Fedra prendiamo, e lo dichiariamo subito, la strada dell’inconcinnitas che ci porta lontano dalla concinnitas insidiosa fuorviante dei luoghi comuni che, come per Alcesti, ancora vegetano da parassiti sui manuali di letteratura e nella schematizzazione di certa critica, non filologica. La Fedra senecana è stata concepita per la lettura, mentre la Fedra euripidea (Ippolito coronato) come opera da rappresentare in Teatro.
Quindi già in qualche modo inscenata nel testo: questo recitano i manuali, vecchi e d’ultima generazione, indistintamente e in omaggio a quello che, in filologia classica, si chiama principio dei codices plurimi. La tesi di questo principio, che la filologia riconosce fallace, è che, se più codici concordano nella trasmissione di una lectio, quella è la lectio giusta. L’ipotesi azzardatissima che la Fedra senecana fosse “da lettura”, è diventata nel tempo tesi, per sottomissione o forse per ignoranza. E ha prodotto, come danno non veniale, l’”occultamento” teatrale o quasi di questa Fedra, a tutto vantaggio della Fedra euripidea. Non si sottovaluti mai lo scrittore che, in modo plateale o sotterraneo, contamina di sé, del suo tempo, della sua avventura di vita, l’opera. Seneca (I d.C.) vive in età di delitto, è ammorbato di delitto, vive di sangue nel sangue, egli medesimo morrà di sangue, costretto a togliersi la vita (65 d.C.) per ordine di Nerone. Nerone non volle essere la “sua” creatura. Nerone respinse quei “lumi” che, filosoficamente, avrebbero dovuto, secondo il suo maestro Seneca, far di lui un optimus princeps, un sovrano esemplare, sulla scia di magnifici postulati platonici e poi ciceroniani, pensiamo anche al Somnium Scipionis (De re publica). Il patrimonio genetico di Nerone, altamente pregiudizievole, il conflittualissimo rapporto con la madre Agrippina, facevano di lui un omicida, per (pre-)destinazione, quand’era solo un ragazzo, minacciato già da una gravissima paranoia. Seneca, consapevole di non poterne essere guida e mentore, di non poterne fronteggiare i demoni, si muove in punta di piedi con il suo discepolo, che invece avanza spedito nel delitto e a 18 anni, nel 55, uccide Britannico, figlio di Claudio e Messalina, in quanto possibile aspirante all’impero. A 22, facendo brillantissima carriera nel delitto, in quanto grandissima la sua libido necandi, uccide la sua stessa madre Agrippina (Annales. Tacito). Tutto il Teatro senecano è lo speculo d’una aetas storica difficilissima, in cui la malattia di mente era quasi una costante, a causa della consanguineità dei coniugi. Non c’è miglior manuale di Storia che la Letteratura dell’età Giulio Claudia, cui di diritto appartiene Nerone. La Fedra senecana riflette il modello della femmina imperiale, spavalda dissoluta lussuriosa, la cui libido fornicandi non s’arresta nemmeno di fronte all’incesto.
Mente la Fedra euripidea, 5 secoli prima, è, e non può non essere, un modello per la Donna della sua generazione. Donna e madre casta, vereconda, addolorata, penitente che, solo una disgrazia, una voluntas deorum inappellabile – in questo caso la voluntas d’Afrodite dispregiata da Ippolito- condanna alla scelleratezza come a un cancro: l’innamoramento del figliastro Ippolito. Eppure Fedra, moglie e madre casta, contro quest’ immane disgrazia, cui donna mortale non può opporsi, in silenzio combatte fin quasi a morirne. Questo perché la funzione del Teatro tragico greco era esclusivamente educativa, politica in senso “disciplinare”. Quindi il modello di Donna, funzionale alla Polis, é casto, fedele, sottomesso, proprio quello che Euripide propone con la sua Fedra nella tragedia Ippolito coronato. “Quando Eros mi ferì, il mio primo pensiero fu di non dire nulla, sopportare la piaga e nascondere il male di cui soffrivo. L’altra cosa fu di essere forte e rimanere ferma contro la mia follia, e superarla dominando me stessa. Quando in ultimo vidi che non riuscivo con le mie forze a vincere Cipride, decisi di morire. Era l’unica salvezza….maledetta la prima donna che portò disonore nel letto, e apri a un altro uomo. Odio quelle donne che sanno essere caste a parole e in segreto sono pronte ad ogni audacia. Come possono costoro, guardare in faccia lo sposo e non rabbrividire?.. questo mi uccide, che un giorno io non abbia a coprire di vergogna mio marito, e i figli che il mio grembo ha partorito. Il nome della madre sia per loro una gloria. Questa è l’unica cosa che permette di affrontare la vita: anima retta e nobili costumi”.
La Fedra senecana non risponde alle esigenze di una classe politica “democratica”, sia pur con tutti i limiti di una democrazia del V a. C. C’è un impero, un monarca, unus et solus, che “legifera” quanto gli suggerisce la sua paranoia, il suo disagio mentale. Questa Fedra, quindi, svincolata da ogni sudditanza d’ordine “politi-co” è assolutamente altra. Autonoma da ogni etica, da ogni presupposto morale, se ne frega del klèos, per sé i figli lo sposo. Vuole, per la sua carne e la sua libido di femmina, l’incesto con il giovane figliastro, cui rivela la sua passione senza mediazioni né mediatori. Nella Fedra euripidea, invece, era stata la nutrice a rivelare a Ippolito il segreto della padrona, giunta ormai quasi alla morte. “E’ Ippolito che grida. impreca contro la mia serva, la chiama traditrice del letto del padrone…m’ha perduta svelando quel che per me era una sventura. Voleva medicare la mia piaga, ma l’ha fatto in malo modo a prezzo dell’onore”. (Euripide)
La Fedra senecana, venialissima profezia, troverà grande consenso negli spettatori, cui serial televisivi di planetario successo, come Be-autiful, hanno “politicamente” insegnato che una donna, pensiamo a Brooke, può transitare con estrema disinvoltura dal letto del marito a quello del suocero e viceversa, per poi anche visitare i talami del genero e del cognato, diventando, in virtù di tali “dissertazioni” paladina-testimonial d’un modus vivendi ormai universalmente adottato. Non esita Fedra a rivelare la sua passione al figliastro, come non aveva esitato di fronte all’incesto, anche solo psicologico, Agrippina, la madre di Nerone. Possedere il territorio della carne consanguinea è il primo atto, per marcare poi il più appetibile e appetito territorio della Psiche e del Potere. Nel momento della rivelazione di Fedra a Ippolito c’è una minima eco, senza comunque significato reale, della Fedra euripidea, che Seneca non può certo adottare ma che non può certo dimenticare. L’Autore vive questo conflitto, ma più forte di tutto è il tatuaggio del presente sulla sua carne, sulla sua paura, sulla sua disperante disperazione.
“Osa mio cuore, una gran parte del mio delitto si è consumata da tempo, da quando ho concepito un amore inconfessabile, ora è troppo tardi per avere vergognai! (Fedra, Seneca). Al figliastro che, puro, la chiama “madre”, Fedra nega immediatamente la maternità. «Madre? O no! È un termine troppo solenne: ai nostri sentimenti va bene un termine più modesto. Chiamami sorella, oppure schiava….sì schiava…il mio cuore avvampa sino a impazzire. Un rivo di fuoco ribolle in fondo alle viscere e corre nascosto per le vene….” (Ibidem). Potente l’ossimoro rappresentato dalla dissolutezza di Fedra e dalla castità di Ippolito, figlio di Teseo, che incarnano un ben più profondo ossimoro. Pudor et Furor, da cui è attraversato tutto il teatro senecano. Come lebbra precipita su questo giovanissimo uomo la terribile verità.
E’ lui, ignaro oggetto di passione della matrigna, è lui il giovane Teseo che lei ama, non il vecchio Teseo che un giorno amò “Che splendore era! Tu hai in più il fascino di una bellezza disadorna, c’è in te tutto tuo padre e tuttavia qualcosa della tua selvaggia madre. Sul volto di un greco la bellezza di uno Scita…. Ippolito, pietà, pietà di una donna innamorata”.
Ancora il tema dell’ossimoro, declinato questa volta sulla bellezza di Ippolito, selvaggia e callimachea a un tempo. Ma quando il giovane con sdegno la rifiuta “via da me, non toccarmi, non contaminare il mio corpo con le tue mani lascive”, Fedra in una velocissima climax, passa dalla prece alla minaccia. “Ti seguirò anche attraverso il fuoco, per il mare in tempesta, per rocce e fiumi vorticosi, dovunque volgerai i tuoi passi la mia passione ti seguirà”. (Ibidem). Ora, sia del Lettore l’ultima Parola, noi siamo ammutoliti da cotanta devastante rigenerante Bellezza.
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