Ci trascinammo il “signor Ciccio” per un buon quarto d’ora, quell’ubriacone era tenace, spesso metteva la testa fuori e urlava qualcosa in dialetto, come un grido di guerra
di Ascanio Bonelli


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Risposi che stavo arrivando.
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Quella mattina ero nervosissimo, così nervoso che per tutto il viaggio non avevo neanche acceso la radio. Girai a destra, era appena arrivato a Sampieri. Osservai il mare alla mia destra: chilometri di spiaggia dove ad aprile qualcuno faceva già il bagno.
Io e i miei genitori vivevamo a Milano, mia madre però è siciliana. Zio Ignazio ci aveva invitato qualche giorno per festeggiare il doppio compleanno, quello suo e della zia, nati ad un giorno di distanza. Per la sera della festa si era preparata una cena da matrimonio, dalla pasta ncaciata agli sfinci, con decine di portate e tre giorni di preparazione. Così per pranzo avevano ordinato scacce e arancini. La casa dello zio si trovava in campagna e qualcuno doveva andare a prenderli con la macchina. Dissi che ci sarei andato io, avevo preso la patente da sei mesi e avevo bisogno di non perdere la mano. Quando lo dissi, zio Ignazio in dialetto stretto aveva fatto una delle sue battute, quella che ripete da anni e che non fanno ridere.
Subito era nata la discussione: mio padre si era tolto il sigaro dalla bocca e aveva risposto che lui a vent’anni aveva viaggiato per mezza italia solo per incontrare una donna. Mia madre era arrossita e mi aveva difeso dicendo che “forse ce io l’avrei potuto fare”. Alla fine fra battutine e consigli dementi mi avevo dato il permesso.
Chi non ci è mai stato non lo può sapere, ma nella provincia siciliana non è buona abitudine avere cartelli stradali, in più tutte le strade appaiono identiche, con carrubi e muretti in pietra a vista d’occhio. Per questo l’unico modo per orientarsi è conoscere le strade a memoria, visto che nemmeno il navigatore è affidabile.
All’incrocio girai a destra. Dopo duecento metri vidi una ragazza che sul bordo della strada tentava di far partire il motorino. Era bella, bruna di occhi e capelli, indossava una gonna di jeans e una maglietta a maniche corte. Improvvisamente si mise ad urlare qualcosa in dialetto, che però non capivo. Stava dando un calcio al motorino, lasciandolo cadere sull’asfalto. Mi avvicinai a lei.
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Si sorprese, magari pensava che fossi uno del paese che voleva importunarla.
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In risposta mi indicò il motorino, le dissi che potevo darci un’occhiata. Parcheggiai e scesi dalla macchina. In quel momento squillò il cellulare, il solito tempismo. Era mia madre.
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Controllai il motorino. Uno dei miei amici lavorava in un’officina e mi aveva insegnato qualcosina ma per quello che potevo vedere si dovevano cambiare dei pezzi del motore. Spiegai tutto alla ragazza che non mi aveva tolto gli occhi di dosso, studiando tutte le mie mosse.
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Dall’auto, un’utilitaria scassata degli anni ’80, scese un uomo anziano con in mano un fucile da caccia. Barcollava ubriaco, la ragazza balzò in piedi spaventata a morte.
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Sul momento non capi, poi vidi riflesso nello specchietto una macchina che ci inseguiva a velocità sostenuta, era quella del “signor Ciccio”. Se quel inseguimento mi fece impressione, non fu lo stesso per lei, che si limitava a controllare la strada con una smorfia ironica.
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Lei abbozzò un sorriso.<
Milano? Stavo per risponderle a tono quando squillò il cellulare…era di nuovo mia madre! Mi ero dimenticato di lei e dei loro maledetti arancini! Il cellulare mi vibrava nelle mani, non potevo rispondere. Dovevo inventarmi un guasto inesistente alla macchina? Certo, poteva raccontare la verità ma non mi avrebbero mai creduto, e se lo avessero fatto mi avrebbero preso in giro per tutta la vita.
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Ci trascinammo il “signor Ciccio” per un buon quarto d’ora, quell’ubriacone era tenace, spesso metteva la testa fuori e urlava qualcosa in dialetto, come un grido di guerra. Il fato ci venne finalmente in aiuto: passammo davanti a un passaggio a livello pochi secondi prima che la sbarra si abbassasse. “Il signor Ciccio” non fece in tempo e rimase bloccato.
Al suono del passaggio a livello che si chiudeva festeggiai come se avessi vinto la champions league. Diedi il cinque alla ragazza.
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Durante il viaggio mi spiegò tutto: “Il signor Ciccio” aveva due figlie, la maggiore era una donna bruttina, e poco intelligente. Quindi nessuno la voleva, stranamente si era trovato un fidanzato che però l’aveva lasciata senza dare spiegazioni.
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Lei si arrabbiò.
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La ragazza aveva capito dove volevo arrivare. Si prese i complimenti fingendo indifferenza.
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Eravamo a meno di un chilometro da Sampieri. Sulla mia destra vedevo i chilometri di spiaggia libera. Il sole era quello di mezzogiorno. Improvvisamente sentimmo un rumore secco, la macchina non teneva più la strada. Ci fermammo: si era bucata una ruota per una pietra o qualcosa di simile.
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In effetti non aveva tutti i torti, questa storia era credibile. Non persi tempo, accesi il cellulare e chiamai prima il carro attrezzi ma feci parlare lei. Poi chiamai mia madre, mi ero preparato bene la recita. Spiegai della ruota, che avevo avuto problemi con la linea e che avevo potuto chiamarla solo ora. Inserii moltissimi dettagli per rendere vera la mia storia. Le assicurai che non dovevano preoccuparsi e che avrei aspettato il carro attrezzi.
Quando chiusi la telefonata la ragazza rise mostrando i bei denti bianchi.
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Io alzai lo sguardo e osservai il mare. Era piatto, senza un filo di vento, perfetto per rilassarsi sotto il sole caldo. Che bello. Mi venne un’idea.
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Indicai la spiaggia a cinquecento metri da noi. Sara, curiosa, seguii la mia mano.
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I suoi occhi neri mi fissarono, per decidere se ne valesse la pena. Fece due passi verso me.
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Presi dalla macchina tutto quello che serviva e ci incamminammo verso la spiaggia. Passammo un bel pomeriggio, uno diverso, e quei maledetti arancini erano buonissimi.
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