Il mio amico Marco fotografava un clochard addormentato su una delle panchine
di Redazione

Milano – Era il solito weekend, quello che passa come l’ultima sigaretta. Io e miei amici superammo pigramente il Duomo e ci salutammo. Alcuni se ne andarono in macchina, altri come me e Giulia, la mia ragazza, raggiungemmo la fermata in piazza Fontana. Il tram non era ancora arrivato.
Andai a bere alla fontanella vicino alle panchine. Improvvisamente una risata mi sorprese alle spalle, mi girai. Il mio amico Marco fotografava un clochard addormentato su una delle panchine: l’anziano aveva gli abiti sporchi e russava, ai suoi piedi c’era una bottiglia vuota di vino rosso.
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Avevo visto abbastanza, ero furioso. Con uno scatto lo raggiunsi e gli strappai il cellulare da mano, questo lo fece indietreggiò per la sorpresa.
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Marco distese le labbra in un ghigno, alzò il pugno chiuso come minaccia ma io non mi tirai indietro. Non era di certo la nostra prima rissa, anzi ci eravamo conosciuti proprio così in una sera d’estate. Entrambi ubriachi come le merde.
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Marco mi guardò in cagnesco, abbassò il pugno e lo distese per prendere il cellulare nel palmo. Glielo diedi e lo vidi salire sul mezzo. La mia ragazza mi sorprese alle spalle.
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Giulia era davvero arrabbiata: teneva le mani sui fianchi stretti e con il viso ridotto ad una smorfia non mi sembrava più così bella.
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E prima che le porte del tram si chiudessero vidi il mio migliore amico e la mia ragazza sedersi vicini, e sul volto di Marco lessi quello sguardo che conoscevo benissimo dopo dieci anni di conoscenza. E non era mai stato positivo.
Il giorno dopo sembrava tutto risolto. Anche se non avevo trovato Giulia a casa, fu lei a chiamarmi. Mi disse che Marco voleva chiarire ed aveva organizzato un incontro per la sera stessa, nella stessa piazzetta. Confermai che ci sarei stato e le chiesi di vederci prima, per parlare di noi. Giulia mi rispose in mondo sbrigativo che non poteva.
Andai all’incontro. Il vagabondo sedeva ancora sulla panchina della sera precedente ma questa volta era sveglio e sobrio. Mi fissava spesso, forse era uscito dalla sbornia e ricordava qualcosa della sera precedente. Ma a me non importava e feci finta di non notarlo. Attesi per quarantatré minuti senza che nessuno si presentasse.
Adesso capivo esattamente il valore di quell’ultimo sguardo di Marco. Chiamai Giulia, sul fondo della telefonata sentivo il solito casino dei locali affollati. Era orario di cena.
La mia voce era così dolce da placare un tigre ferita.
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La voce le si spezzò d’improvviso.
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La mia ex staccò bruscamente la chiamata. Avrei dovuto essere dispiaciuto ma non lo ero perché finalmente mi sentivo libero. Anche l’aria della notte sembrava più fresca.
Una risata mi scosse dai miei pensieri, era quella del vagabondo.
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Il vecchio prese una pillola bianca da una tasca interna del giaccone sporco e la inghiotti tracannando del vino con il mestiere dell’ubriaco cronico. Ora potevo osservarlo meglio: doveva avere sui settantanni, un lungo barbone bianco-grigio e le occhiaie che sottolineavano il viso. I suoi occhi neri e intesi mi fissavano.
Si, il clochard aveva attirato la mia attenzione. Mi alzai e colmai quei pochi metri che ci separavano. Sedetti sulla panchina accanto a lui, ma sul bordo, per non essere troppo invadente.
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Non mi rispose. Bevve dell’altro vino e stese le gambe per dormire. Chiuse gli occhi.
Fantastico, pensai, mollato dalla donna e dagli amici e un vagabondo ubriaco fa il filosofo con frasi criptiche.
Stavo per andarmene quando mi si avvicinò un tassista in coda davanti all’hotel di lusso che dava su piazza Fontana.
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Capii dove voleva arrivare. Arrestare un vagabondo senza casa per cattiva pubblicità? Mi dava fastidio almeno quanto il video di Marco. Mi avvicinai alla panchina. Cercai di svegliare l’anziano strattonandolo ma in risposta ricevetti solo una girata di spalle e un gran russare.
Di un tratto vidi del tessuto di pelle marrone in una tasca interna della sua giacca logora. Misi mano e lo tirai fuori senza che si smuovesse dal suo torpore. Mi girai e vidi il tassista che mi fissava.
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Presi il portafoglio: era un bel modello, di pelle marrone tendente al nero. Lo aprii e all’interno trovai tutto quello che dovrebbe possedere un normale cittadino. Carta di credito, bancomat, tessere del supermercato, diverse banconote e un documento.
Mi chiesi a chi l’avesse rubato. Curiosai nelle tasche laterali: c’erano una vecchia foto a colori di una giovane donna dai capelli neri, una decina di monete ancora in lire e una fede di matrimonio. Aprii anche il documento e con mia grande sorpresa, nonostante la scarsa illuminazione, riconobbi il viso del vagabondo. Francesco Lumerti: così dichiarava la carta d’identità.
Quindi il vagabondo era una persona normale che aveva perso tutto? Ma se aveva dei soldi perché dormiva per strada? Controllai l’indirizzo della residenza, era a Milano. Mi avvicinai al tassista e gli chiesi di aiutarmi a caricarlo sul sedile.
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Il viaggio non fu molto lungo, non sapevo dove il tassista ci stava portando. Era in una vietta di Corso Buenos Aires, una bella zona. Arrivato al civico 17 iniziarono i problemi. Dovetti far scendere il ”vagabondo” e adagiarlo al muro della palazzina. Pagai il tassista che mi guardò stupito.
Ora cosa dovevo fare? Nella perquisizione non avevo trovato chiavi di nessun genere. Ormai si erano fatte le 22.30, aveva senso aspettare che qualcuno dei condomini rientrasse per spiegare loro la situazione? Magari questo vecchio era uno dei pazzi di “Chi l’ha visto”, che se ne vanno di casa per non tornare più. L’unica speranza era che Francesco Lumerti vivesse con qualcuno, un parente o una badante. Sul citofono trovai il cognome. Schiacciai, nessuna risposta. Riprovai. Avevo perso le speranze quando rispose una flebile voce di donna.
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La voce si rianimò di un tratto, una risata cristallina mi esplose nelle orecchie.
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Riprovai a mettermi in contatto con la donna ma non rispose più. Che stava succedendo? Mi sedetti e appoggiai la schiena al portone del palazzo. Chiusi gli occhi un momento. Stavo per sbadigliare quando la porta si aprì spingendomi lateralmente. Mi alzai in qualche maniera ridicola.
Una donna sui trent’anni e dai capelli neri scapigliati mi fissava con sospetto. Spostò lo sguardo da me al vagabondo e alla sua vista gli si illuminò il viso. Gli stava andando incontro quando si rese conto di essere con un cappotto aperto che mostrava sotto una vestaglia. In più era anche struccata. Cercò di sdrammatizzare con un sorriso.
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La donna intercettò i miei pensieri.
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La osservai bene, era bella nonostante non fosse preparata. I lineamenti del suo viso erano morbidissimi.
Ci presentammo. Si chiamava Silvia.
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Lei rise. <
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Silvia mi raccontò di come avesse conosciuto il signor Lumerti tre anni prima, quando si era trasferita nel condominio. Aveva subito fatto amicizia con la signora Lumerti, una signora meravigliosa sotto ogni aspetto. Spesso cenavano insieme e Silvia si era affezionata a quei due simpatici vecchietti. L’anno scorso la signora Lumerti era venuta a mancare per un attacco cardiaco e lei aveva incominciato a prendersi cura di suo marito, che da allora non era stato più lo stesso. Prima era solito uscire spesso, giocare nei tornei di quartiere di tresette e poker e qualche volta andava anche a teatro. La morte della moglie era coincisa con il suo allontanamento dal mondo.
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Silvia si sciolse in una smorfia.
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Assentii, avevo compreso la situazione. Controllai l’orologio e fra una chiacchiera e l’altra si erano fatte mezzanotte e un quarto.
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La mattina successiva venni svegliato bruscamente: Silvia stava parlando al telefono con qualcuno ed era molto arrabbiata.
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Alzai il busto e guardai sopra lo schienale del divano. Silvia indossava un jeans e una pullover rosso, camminava avanti e indietro.
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Sorrisi: la sera prima non avevo scorto quella parte del suo carattere. Era proprio un bel tipo, una con cui non si ci annoia mai.
Silvia si era presa una giornata dal lavoro e l’aiutai a sistemare, passammo camera per camera. Solo verso le dieci Checco si svegliò. Non mi riconobbe affatto, anzi mi mandò al diavolo. Ovviamente non stava bene per i postumi ma una doccia calda lo mise in sesto. Si fecero le undici: stavo andando via quando Silvia mi fermò sulla soglia.
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Silvia mi prese la mano per tirarmi simpaticamente dentro casa.
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Io finsi scetticismo.<
Silvia mi prese ancora la mano.
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In quel momento il mio cuore anestetizzato tornò a battere e solo allora compresi l’affermazione di Checco in quella piazzetta: è davvero dura essere invisibili. Si, recitare ruoli che non siamo ci può soffocare ma talvolta possiamo riscattarci. In un modo o nell’altro. Qualcosa in me era cambiato.
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