Cronaca
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09/03/2011 19:41

Claudia, un fiore reciso sui binari

“I funerali li faremo in Romania, noi siamo con la chiesa ortodossa”

di Giuseppe Savà

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La scarpa di Claudia
La scarpa di Claudia

Modica – “Papà, non lasciatemi sola a casa col nonno, portatemi con voi”. Carnevale, giorno di vacanza dalla materna per Claudia, sei anni ancora da compiere. Papà e mamma l’hanno accontentata, portandola con loro a cercare ferro vecchio e asparagi, sulla linea ferrata che da Sampieri conduce a Marina di Modica.

“I funerali li faremo in Romania, noi siamo con la chiesa ortodossa”, annuncia un amico di famiglia, rumeno anch’egli, che insieme ad alcuni cugini della sventurata bambina staziona davanti al tugurio di via Napoli, la casa in cui la famigliola rumena risiede. “I nostri bambini in Italia non sono liberi come in Romania. Quando tornano da scuola li facciamo stare in casa, non è facile andare d’accordo con i bambini italiani. Meglio stare fra noi, rumeni”.

Claudia era la secondogenita, preceduta e seguita da due fratellini, che vivono con gli altri nonni, in Romania: “A cento chilometri da Bucarest, in una città grande come Siracusa”, aggiunge un ragazzo meno diffidente, che si accredita: “I miei genitori hanno battezzato Claudia. Veniva sempre a casa mia, le piaceva ballare”.

Le loro donne, appena vista la presenza di un estraneo, si sono rifugiate nella casetta di trenta metri quadri, lasciando agli uomini il compito di interloquire e di difendersi dalle domande. Gli unici elettrodomestici un frigo e la parabola satellitare, il cordone ombelicale con la madrepatria. “E’ venuta la maestra, ha pianto tanto” si lascia sfuggire uno. “Se non c’era il carnevale, stamattina Claudia se ne andava a scuola, sarebbe ancora viva”. Accorrono amici rumeni da tutta Modica, qualcuno addirittura da Rosolini: “Lavoriamo tutti in campagna. Ho finito ora, sono venuto appena ho potuto. Lavoriamo fino alla sera, per pagare la luce e l’affitto. Trecento euro, due stanze”.

Sulla littorina che avrebbe dovuto portare a Siracusa una coppia di docenti sciclitani. “Ho sentito il treno fischiare, poi la frenata repentina –racconta lei-. Siamo scesi, abbiamo capito subito. Ho abbracciato quella madre disperata: il viso stretto in un fazzoletto, povera, di una povertà disarmante. Suo marito  implorava al cielo: “Claudia, perché non ti ho lasciato a casa stamattina?” Il volto di quella donna era di un’età indefinibile, di chi è stato temprato ben presto da una vita di stenti, mentre il corpicino della bambina era lì. Una ferita alle spalle l’aveva recisa sul colpo”.