Lettere in redazione
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17/03/2022 17:40

Dove c’è pane c’è casa. Racconto ragusano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

di Luciana

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Il pistolo di pane
Il pistolo di pane

Ragusa – Occupavo, con la mia famiglia, il piano terra di un caseggiato semicentrale di Ragusa. Una traversa di corso Italia, un serpentone che dalla collina di Ragusa-alta scendeva fino a Ragusa-Ibla zona antica e caratteristica della città. Un dammuso, praticamente un monolocale diviso a metà da un paravento di legno che delimitava la zona coi letti e l’armadio dalla zona pranzo. Non c’era la cucina, si utilizzava una specie di fornello da campo attaccato alla bombola.

Dopo una facile trattativa, mia madre riuscì ad ottenere il co-utilizzo di un altro locale cui si poteva accedere oltrepassando la scala nera, di pietra lavica, centrale rispetto all’edificio e che portava al primo piano, dove abitavano i proprietari della piccola palazzina. Il locale in discussione era stato ricavato ristrutturando la rimessa dei cavalli e là, dove prima c’era la mangiatoia, era stata costruita la cucina economica, mentre dal soppalco dove si teneva il fieno, era stata ricavata una sorta di soffitta il cui contenuto era, per me, avvolto dal mistero. Vi si accedeva solo se ci si arrampicava da una instabile, pericolosa scala a pioli. L’accordo era che avremmo potuto usare il locale a condizione che lo potessero utilizzare anche loro quando ne avessero avuto bisogno e cioè per recuperare o ricoverare gli ammennicoli segreti nel soppalco, o “il giorno del pane”.
Il ricordo del “giorno del pane”, nonostante siano trascorsi più di sessant’anni, è ancora vivo in me; per me, bambina, quel giorno era una festa. A quei tempi molti facevano il pane in casa. Alcuni avevano un pezzo di campagna coltivato a grano duro, naturalmente, e molti conoscevano qualcuno, parente o amico, che regalava loro la farina o la barattava con altri prodotti della terra. Chi non aveva il forno in casa portava le forme di pane da cuocere al fornaio, ne ricordo un paio in zone diverse della città.
Invece Marietta e Nonna, madre e figlia e grandi amiche di mamma, le proprietarie di casa, avevano nel solaio, sopra l’abitazione, uno splendido forno a legna, di cui nessuna legge sulla sicurezza si è mai occupata. Il solaio si animava ogni 15 giorni, tanto durava il pane fatto in casa ed il quindicesimo giorno era buono quanto il primo.

La “festa” cominciava molto presto, al mattino, ed io appena sentivo scendere Marietta e Nonna, saltavo giù dal letto perché volevo partecipare al rito. Non ho mai saputo come si chiamasse Nonna, era una nonna a noleggio perché non ne avevo mai avuta una a portata di mano.
Nonostante la levataccia trovavo, sempre, già attrezzato il locale oltre la scalinata. Marietta e Nonna avevano già montato la “brìula” (o “scaniaturi” dipende dalla zona) una grande tavola di legno a forma di enorme racchetta, e già avevano versato sul pianale una montagna di farina col buco in mezzo. Praticamente l’etna-sole-sulla-costa-video/150616″ >Etna nel cui cratere veniva rovesciato il lievito madre. Ricordo ancora l’acre profumo e l’aspetto inquietante del lievito madre; ricordo anche che veniva immediatamente reintegrato perchè si rigenerasse per la volta successiva.
Nonna si sedeva cavalcioni sulla parte stretta della brìula e, piano, piano, formava l’impasto che, raccolta tutta la farina, doveva essere lavorato con l’aiuto di Marietta la quale con movimenti ritmici, alzava ed abbassava il bastone di legno (briuni) sapientemente fissato alla base ad una staffa, entrambi, bastone e staffa, con fori appositamente predisposti e attraversati da un cilindretto di legno che ne bloccava la fuoruscita. Serviva a schiacciare l’impasto. 

Ci tenevo moltissimo ad aiutare Marietta e lei pazientemente lasciava che mi attaccassi al briuni per “scaniari” il pane e ogni tanto un pizzico di pasta cruda mi finiva, di soppiatto, in bocca. Era buonissima e non era vero, come sostenevano i “grandi” per non farmela mangiare, che mi sarebbe venuto mal di pancia. Mai successo.
Aspettavo con impazienza la lievitazione dell’impasto che veniva avvolto in tovaglie di cotone e coperte di lana e, finalmente, dopo un paio d’ore, arrivava il momento di creare le forme del pane.

La fase “creativa”, non si fermava alle forme classiche che vediamo nelle immagini, ma, specialmente durante le feste natalizie e pasquali si arricchiva di alberelli, stelle, pecorelle e cestini con uova sode. Io pretendevo il mio pezzo di impasto da lavorare e così infilavo anche la mia pagnottella in mezzo a quel ben di dio. Le forme composte si lasciavano riposare ancora per una mezz’ora. Nel frattempo si saliva in solaio ad accendere il forno a legna. Era una cupola di pietra di cui Nonna era il “tecnico”; conosceva le frasche che servivano per accenderlo e il segreto del tipo di legno da usare cioè un legno che non rilasciasse cattivi odori al pane. Credo usasse legno di ulivo. Accesa la fiamma Nonna chiudeva il forno con una porta di metallo e, quando il fuoco si esauriva, spostava ai lati del forno, con una specie di rastrello, le braci ardenti e infornava il pane utilizzando una grossa pala come quella per le pizze. Mia madre approfittava del “giorno del pane” per infornare anche le “scacce” (una specie di calzone), leccornia con all’interno pomodoro, cipolla basilico e caciocavallo. In pratica mia madre aveva trasformato “il giorno del pane” nel “giorno del pane e delle scacce”.

Il profumo che si levava dal forno e si espandeva per la via e la fragranza del pane e delle scacce sfornati e appoggiati sul tavolo in cucina, annunciavano che quel giorno, in quel dammuso, si sarebbe mangiato proprio bene, suscitando una certa invidia nel vicinato a cui per educazione si chiedeva: “volete favorire?” e loro altrettanto educatamente rispondevano: “Grazie, come se avessimo accettato”.
Noi bambine del ’52 così ci divertivamo, senza IPOD, IPHON e PC. Maschi in casa non ce n’erano. L’unico era mio padre, ma il “giorno del pane” era sempre a lavoro.
Ci tengo a dichiarare, per concludere, che nonostante il forno a legna, la scala a pioli e la bombola a gas GPL, nessuno si è mai fatto male e non mi considero una sopravvissuta. Chissà se supererò, con altrettanta nonchalance, il covid, i venti di guerra che soffiano da est o, come cantava Battiato, le correnti gravitazionali.