L’attribuzione allo scultore catanese Francesco Pastore
di Un Uomo Libero.


Madrid – È strano come a nessuno sia venuto in mente d’identificare Scicli, la città barocca, con il suo Cristo Risorto, vera espressione di un tardo barocco, lo stesso che ha caratterizzato la ricostruzione artistica dei suoi palazzi e delle sue chiese.
Soprattutto dopo la scoperta fatta da Massimo Boscarino riguardante documenti inoppugnabili che escludevano in via definitiva ogni attribuzione allo scultore palermitano Benedetto Civiletti e, doverosamente, riconoscevano la paternità dell’opera allo scultore Francesco Pastore, attivo a Catania proprio alla fine del Settecento.
Anno 1796, pare che sia stata questa la data di nascita del Cristo Risorto oggi venerato nella Chiesa di Santa Maria La Nova di Scicli, popolarmente conosciuto come “L’Uomo Vivo” e invocato con una sola, unica ma insostituibile parola “GIOIA”.
In un’interminabile controversia insorta tra il Procuratore fiscale del Real Patrimonio e la concessionaria del servizio postale dell’isola, Doña Vittoria Zapparada de Pattis, quest’ultima lamentava che il terremoto del 1693 aveva distrutto gran parte dei centri abitati del Sudest siciliano compromettendo la relativa viabilità in quelle zone. Precisava a tal fine che le vittime erano state circa centoseimila (?) e, per questo, chiedeva dilazioni e franchigie.
La ricostruzione si presentò da subito problematica e complessa, in effetti.
Tuttavia già dal 1695 gli abitanti dei centri colpiti e i rispettivi feudatari incominciano a muoversi in questo senso.
Nella contea di Modica, purtroppo, tutto questo avvenne molto lentamente per la lontananza del Conte padrone Don Juan Tomás Enríquez de Cabrera prima e, in un secondo momento, per gli esiti del suo diretto coinvolgimento nella Guerra di Successione Spagnola.
Guerra che ufficialmente si aprirà con la morte senza eredi di Carlo II, l’”hechizado” (lo stregato), avvenuta il 1 novembre 1700 e che segna il passaggio di mano della Corona spagnola dalla casa d’Austria alla casa francese de Bourbon.
Il conte di Modica, paladino del pretendente austriaco l’arciduca Carlo d’Asburgo, sarà giudicato in contumacia nel 1703 da un tribunale nominato dal nuovo re di Spagna Filippo V, nipote del Re Sole. Da questo tribunale sarà, in seguito, condannato come un volgare malfattore alla “muerte de cuchillo” (accoltellamento), la pena più disonorevole che, nella Spagna del tempo, potesse essere inflitta a un nobile, reo di alto tradimento.
Col trattato di Utrecht (1713), la contea di Modica, confiscata già all’epoca del processo con tutti gli altri beni al conte, è rivendicata ufficialmente dallo stesso Filippo V che per alcuni anni si preoccuperà anche di gestirla come un territorio d’oltremare nominando un suo amministratore.
La situazione era davvero allo sbando, dunque.
Da qui lo scatto di orgoglio di un’aristocrazia locale che era cresciuta e si era arricchita all’ombra della figura latitante e lontana del conte, lucrando e speculando nel sottobosco di mille affari torbidi.
Improvvisamente, allora, tutto comincia a muoversi.
La Contea si trasforma in un cantiere. L’edilizia religiosa e quella civile trovano in abili capomastri i protagonisti materiali di un risveglio che darà vita e corpo alla ricostruzione. Sono veri artisti geniali opportunamente incoraggiati da religiosi, filantropi e parvenu.
Tutti vogliono avere una loro parte nella rifondazione delle città distrutte.
Le università comitali sono animate, così, da soggetti che non sempre sono disinteressati.
Le liti secolari tra chiese rivali e rispettivi fedeli spesso si ricompongono davanti allo spauracchio dell’oblio della memoria.
Tra il 1771 e il 1775 opera a Scicli Pietro Padula, un celebre statuario napoletano che ci regalerà uno dei presepi più stupefacenti e più belli dell’isola. Ma anche uno splendido San Giuseppe.
Le confraternite maggiori si emulano nell’adornare i loro templi di tesori d’arte e d’importanti reliquie.
La vita ritorna a pulsare là dove la morte aveva abbondantemente mietuto.
Nella seconda metà del Settecento e primi dell’Ottocento si completa quasi tutta la ricostruzione della città monumentale ad eccezione di qualche chiesa, per esempio la venerabile Matrice rimasta poi per sempre incompiuta.
Anche il “Cristo Risorto” obbedisce a questa pulsione incessante di affidare importanti committenze.
È come quando si finisce una bella casa e, poi, si pensa ai suoi ornamenti.
Dopo il terremoto quasi in tutti i centri della contea si erano ripristinate intanto le antiche tradizioni per una continuità storica che sentiva l’esigenza d’innestare il presente nel passato.
A Modica, per la Pasqua, si riproducevano pedissequamente antichi modelli di celebrazione popolari ancora oggi molto diffusi in Spagna.
Così a Comiso e in altri centri ancora.
Anche a Scicli si svolgeva nel giorno di Pasqua un incontro tra il Risuscitato e la Vergine.
Ma da quando compare il nuovo Cristo Risorto, tutto diventa nebuloso e confuso.
In un momento indefinito della Storia la statua del Cristo ruba definitivamente la scena all’altra della Vergine.
Dobbiamo però aspettare le prime lotte sociali in una Sicilia già facente parte dello Stato Unitario per consacrare definitivamente il Cristo Risorto come capopopolo, portatore di una libertà di pensiero non perseguibile o sospettabile.
L’esuberante plasticità delle sue forme diventa l’espressione più raffinata e più elegante di un barocco tutto siciliano.
Il Cristo Risorto di Scicli nulla ha a che fare con le tradizionali raffigurazioni pasquali, nel suo verismo contraddice addirittura i modelli allora in voga.
È l’apoteosi del coraggio di un popolo che è riuscito a risorgere dalle macerie, libero ormai dall’incubo del terremoto.
Ecco perché la gente battezzò, da subito, la statua “L’Uomo vivo”, enfatizzandone la carica emotiva!
La vita, cioè, che vince con ostinazione, che domina la natura con una forza prorompente e sicuramente soprannaturale.
Il divino che irrompe nel quotidiano e lo trasfigura e lo spinge alla lode e alla gioia.
Nessun altro oggetto d’arte può meglio del “Gioia” rappresentare la vera rinascita barocca della città di Scicli e non solo di Scicli, oserei dire di tutto il territorio del Val di Noto.
Strano che qualcuno non lo abbia pensato, ripeto!
Ma, a volte, certe idee sono il frutto di una nostalgia segreta, di un amore struggente e mai appannato, di un affanno personale inconfessabile.
Foto Luigi Nifosì
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