di Redazione

Alda Merini era uscita dalla vita, dalle bellezze della vita, con la sua soffitta. Quello sfratto dai suoi ricordi le era impossibile da sopportare. Più pesante di un percorso denso e difficile che l’aveva vista rinchiusa in manicomio.
Raccontò: «Nel mio baule lassù c’era tutto il mio mondo. Mio marito, i miei ricordi, il mio amore, il mio passato. Avevo racchiuso tutto in quella cassa lassù».
Problemi burocratico-condominiali l’avevano privata della sua mansarda. Non si dava pace. Uno scialle di maglia ai ferri sulle spalle. Una sigaretta perennemente in mano.
Guardava in alto, al soffitto. Lo sguardo perso. Sconsolato. Tutto non le sembrava più “lieve” come un tempo.
«Trovai ancora giovane un fiore bellissmo sulla riva del Naviglio. Il suo colore risplendeva sotto il sole. Era un cavolo. Mi dissero che ero matta. Niente fiori Alda. E mi rinchiusero».
Ma la bellezza era in quel cavolo. Lei la trasformò in poesia.
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