Due pesi e due misure
di Peppe Scarpata


Ragusa – A volte lo Stato e le amministrazioni locali sostengono con denaro pubblico un insieme di imprese o una singola società. Queste ne ricavano un indebito vantaggio nei confronti dei concorrenti: in altri termini, le sovvenzioni falsano la concorrenza e distorcono il commercio.
Lo dice la commissione europea sulla concorrenza, mica son parole mie.
In Sicilia, per bypassare tutto ciò, basta rivolgersi, tramite amici, al Ministero dell’Interno che telefona al Ministro delle Finanze (io lo chiamo ancora così) per imbastire una task force e dare speranze vacue agli imprenditori in difficoltà.
Se l’azienda in crisi, poi, è ragusana con sede a Modica allora tutto diventa più facile per tentare di avere un aiutino di Stato. Insomma, il solito vacuum del ceto politico meridionale che rievoca quel vecchio modello di rappresentanza in cui i notabili, d’appoggio al governo, si servivano di piccoli patrocini in soccorso del proprio collegio elettorale.
Ma l’Europa, mi chiedo, non aveva vietato gli “aiuti generali” a favore delle imprese, ancorchè situate in zone svantaggiate, per coprire le spese operative delle stesse e il costo del funzionamento di impianti, varie e derivate?
E le regole sulla concorrenza? E l’interesse generale? Siamo in Sicilia, è vero: qui governa il paradosso.
Nel 2014, dati di riferimento offerti da unioncamere nel 2015, in Italia chiudono 6.055 imprese di costruzioni; in agricoltura le aziende che non ce l’hanno fatta a sostenere l’onere della crisi e di ogni mala sorte economica sono 5.460, mentre 2.416 fabbriche del manifatturiero non esistono più.
Scusate, ma lo Stato nel duemilaequattordici dov’era? Nessun intervento, nessuna task force, nessuna telefonata tra il Viminale e il MISE per tentare il salvataggio di queste imprese italiane andate alla deriva, o meglio, in default?
Cosa ha fatto la Regione Sicilia per tutelare il reddito dei nostri imprenditori edili, degli artigiani, degli agricoltori costretti a chiudere le proprie attività e a consegnare registri contabili, marchi d’impresa e capannoni industriali nelle mani di un liquidatore giudiziario?
Serve, dunque, una politica di Governo seria, regionale e centrale, per affrontare le criticità organiche, congiunturali dell’economia. Le promesse di forze operative speciali, la dichiarazione dello stato di calamità, l’attivazione di misure finanziarie d’emergenza devono avere efficacia universale: lo strumento d’intervento economico dev’essere valido per tutte le imprese in difficoltà e non un vantaggio per pochi imprenditori privilegiati.
Non si può affidare la sorte industriale di un intero Paese alla regola dell’amico od a una task force governativa accozzata al telefono per confortare le tribolazioni dei paesani, coi mille e ragionevoli dubbi sulla legittimità degli aiuti di Stato da offrire solo ed esclusivamente agli amici.
Se poi la Fiat abbandona prima Termini Imerese e si tira fuori anche da Confindustria, Colacem chiude Pozzallo e lascia centinaia di lavoratori a casa, con Eni che (potrebbe) decidere di trasferire sede e attività in Africa, un motivo ci sarà, no?
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