Cultura
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01/09/2014 13:15

Angelo Sgarioto e Nino Divita, iblei nella tempesta libica

di Saro Distefano

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Nino Divita
Nino Divita

Ragusa – Quarantacinque anni fa la rivoluzione in Libia. Tra i protagonisti, passivi, della svolta storica del paese nordafricano anche due iblei.
Un celebre imprenditore ragusano, Angelo Sgarioto, ed il chiaramontano Nino Divita, tra i maggiori archeologi italiani.
Quel primo settembre del 1969, quando un gruppo tutto sommato esiguo di militari guidati dal colonnello Gheddafi prese il potere strappandolo al Re Idris, entrambi gli iblei si trovavano in Libia.
Sgarioto per condurre la sua fabbrica di prefabbricati in cemento che lui stesso aveva fondato nel 1940, e Di Vita per condurre le missioni archeologiche a Lepits Magna e Sabratha, sulla costa non distante da Tripoli.
Nei primi giorni gli uomini del colonnello Gheddafi, leader della rivolta contro Re Idris El-Senussi, non prestarono particolare attenzione alla folta colonia di italiani che erano in Libia, in alcuni casi, sin dal 1911 quando venne dichiarata guerra all’Impero Ottomano per la conquista della “quarta sponda” come si sarebbe detto durante il Ventennio. Ma già nei primi mesi del 1970 il nuovo governo repubblicano espulse i militari delle basi aeree, e subito dopo gli italiani: medici, docenti, tecnici, artigiani, imprenditori. Furono tutti costretti a lasciare il paese e a farlo in fretta.
Angelo Sgarioto dovette abbandonare la sua bella villa sul mare di Tripoli e soprattutto l’azienda che dava lavoro a decine di tecnici ed operai (e aveva permesso al suo proprietario di depositare brevetti e nuove tecnologie costruttive tuttora valide). Per l’imprenditore ragusano, come per altre migliaia di italiani, si trattò di un vero e proprio dramma: dovette lasciare quanto costruito in trenta anni e ricominciare, ma nella sua Ragusa.
Per l’archeologo chiaramontano la vicenda fu invece molto diversa. Saputo della rivoluzione durante gli scavi che erano stati avviati nei primissimi anni 60 (e che lui aveva condotto nella veste di consigliere per conto del governo libico), prese contatti con l’ambasciata italiana a Tripoli, che consigliò di abbandonare subito la Libia. Ma non passarono molti mesi che il professore venne contattato dai servizi segreti italiani per fare da tramite col nuovo governo libico, grazie alle sue tantissime conoscenze soprattutto nell’ambiente accademico e culturale in genere, per riannodare i rapporti diplomatici tra i due paesi finalizzati, è evidente, a mantenere e possibilmente sviluppare i tanti interessi economici avviati da secoli.
Con la scusa di conferire una laurea honoris causa ad un accademico libico presso l’Università di Roma, Nino Di Vita – adeguatamente addestrato da specialisti dei servizi italiani – fece chiaramente intendere che le due importanti missioni archeologiche italiane in terra africana non potevano chiudere i cantieri di scavo, che tra l’altro avevano già fornito innumerevoli e preziosi materiali oltre ad avere formato non pochi tecnici e operai specializzati.
Dopo una serie di contatti “segreti”, il governo libico deliberò che a Leptis Magna e a Sabratha gli archeologi italiani guidati dall’accademico chiaramontano potevano continuare a scavare (come fanno tutt’ora, anche dopo la nuova rivoluzione del 2011).
Raccontava il professore Di Vita (che è scomparso a Roma il 22 ottobre 2011) la battuta di un suo amico medico, italiano ma residente da sempre a Tripoli, alla notizia che tutti gli italiani lasciavano la Libia tranne gli archeologi: “non lo capirò mai: mandano via i medici italiani, che gli sono indispensabili, e fanno rimanere gli inutili archeologi”.