Milano - «Stai riuscendo a dormire?» chiede Fabio Fazio a Cecilia Sala, ospide di «Che tempo che fa», e lei risponde: «Aiutata sì, sono stata fortunata a stare dentro solo 21 giorni e quindi il recupero per me è stato più rapido di molte altre persone nella mia condizione. Ero sicura che sarei rimasta più a lungo, perché questa è stata l'operazione più rapida dagli anni '80, e io conoscevo gli altri casi, e sapevo che 21 giorni non erano molti. Le ultime sere quando sono arrivate le lenti a contatto, un libro e una compagna di cella ho pensato "okay, posso stare qui anche di più"». Ha esordito così Cecilia Sala, ospite domenica sera di «Che tempo che fa», la trasmissione condotta da Fabio Fazio sul Nove. È la prima volta che la giornalista compare in televisione, o in un qualsiasi programma, dalla sua liberazione, avvenuta l'8 gennaio.
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Ad oggi Sala ha raccontato il suo tempo trascorso nel carcere di Evin, in Iran, solo una volta, nel podcast «Stories», da lei curato per Chora Media. In quell'occasione aveva raccontato quanto successo dal suo fermo - avvenuto a Teheran il 19 dicembre - alla sua liberazione, frutto di un triangolo diplomatico tra Stati Uniti, Italia e Iran. A Fazio ha raccontato «il libro che mi hanno portato era "Kafka on the shore" di Murakami, che hanno scelto loro. Io avevo chiesto il Corano in inglese perché sarebbe stato complicato stare da sola in una cella come quella, ma mi era stato negato e ho passato il tempo a contarmi le dita, leggere gli ingredienti sulla busta del pane...» Dopodiché Sala racconta degli interrogatori subiti, di spalle e incappucciata: «L'ultimo interrogatorio prima della mia liberazione, annunciata al mattino dell'8 gennaio, mi hanno interrogato per dieci ore di seguito con brevi pause e incappucciata. C'è stato un momento in cui sono crollata e mi hanno dato una pasticca per calmarmi. Mi interrogava smepre la stessa persona che parlava inglese e dalle domande che facevo capivo che conosceva bene l'Italia. Erano persone colte». Raccoonta poi che volessero cercare di tirare fuori qualcosa da lei che servisse a dimostrare che non era una giornalista ma che poteva essere scambiata in un caso di sicurezza nazionale. «È stato un lavoro che non si vedeva in tempi così rapidi dagli anni Ottanta». «Quando mi hanno liberata pensavo volessero portarmi da un'altra parte, perché non si fidavano a lasciarmi lì. Quando arrivo all'aeroporto militare mi tolgono la benda e vedendo un uomo che non poteva non essere italiano ho fatto il sorriso più bello della mia vita» aggiunge.