Gli integratori di vitamina D non hanno ridotto il numero dei decessi o i ricoveri in terapia intensiva: una nuova ricerca fa luce sul nesso tra Covid e vitamina D
Covid, dietrofront sull’utilità della vitamina D: non riduce l’infezione e il rischio di mortalità. È una vitamina con un ruolo di primo piano nel regolare molti processi fisiologici. L’uso nella terapia contro Covid-19 è stato ipotizzato da alcuni studi, ma mancavano solide conferme
La carenza di vitamina D non causa una maggior rischio di conseguenze gravi in caso di Covid-19 o a una morte derivata dall’infezione del coronavirus. E l’integrazione della vitamina non migliora significativamente gli esiti clinici nei pazienti colpiti da SarsCov-2. A questa conclusione è giunto uno studio cinese pubblicato sulla rivista scientifica Nutrition Journal che è stato coordinato dal Primo ospedale di Nanchang e dall’Università Sun Yat-Sen di Guangzhou.
Nello studio sono stati presi in esame 536.105 pazienti che hanno partecipato a diversi studi già sottoposti a revisione. Secondo quanto analizzato durante gli studi, ogni aumento di 10 nanogrammi per millilitro della vitamina D nel sangue non è tata associata a una riduzione del rischio di Covid-19. Gli integratori di vitamina D non hanno ridotto neanche il numero dei decessi o i ricoveri in terapia intensiva. Gli studiosi hanno anche potuto appurare che la carenza di vitamina D (con meno di 20 ng per millilitro) o l’insufficienza della stessa (con meno di 30 ng per millilitro) non sono legati a un aumento significativo del rischio di infezione da Covid-19.
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La vitamina “del sole”
Con il termine vitamina D si identifica in realtà un gruppo di molecole (pro-ormoni), presenti soprattutto sotto forma di ergocalciferolo (vitamina D2) e colecalciferolo (vitamina D3). La forma attiva della vitamina (calcitriolo o 1,25-diidrossivitamina D) si lega a un recettore specifico presente sulla superficie delle cellule e può così svolgere la propria azione, collegata soprattutto – ma non solo – al buon funzionamento del metabolismo delle ossa.
Il recettore non si trova solo a livello delle cellule dell’apparato scheletrico, ma anche in molti altri tipi cellulari, da quelli del sistema immunitario a quelli di stomaco, rene, prostata e cervello. Non c’è quindi da stupirsi se gli effetti della vitamina D interessino così tanti aspetti della salute umana.
Le differenze con le altre vitamine emergono però quando si pensa alla fonte primaria della molecola. La quantità di vitamina D contenuta negli alimenti è infatti scarsa, mentre secondo le stime dell’Istituto superiore di sanità, il 90 per cento del fabbisogno di questo composto si ottiene grazie all’esposizione al sole.
Su questo punto restano però ancora molti dubbi da chiarire. Innanzitutto bisogna tener conto del fatto che l’effetto benefico dell’esposizione al sole, e di conseguenza la sintesi di vitamina D da parte dell’organismo, non è sempre uguale, ma dipende da numerose variabili, come per esempio l’ora in cui ci si espone, la latitudine, l’età, il colore della pelle, l’uso di creme solari – sempre fondamentale per aiutare a prevenire eventuali malattie dell’epidermide – e molto altro ancora. Inoltre, lo stile di vita moderno, che prevede sempre meno ore trascorse all’aperto anche per i bambini, non stimola la formazione della vitamina D e rende la carenza piuttosto comune.
Dubbi sull’uso per Covid-19
La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente rafforzato l’interesse dei medici e dei ricercatori nei confronti della vitamina D. In un commento pubblicato nel mese di agosto 2020 su Lancet Diabetes and Endocrinology si sottolinea infatti come le categorie di persone maggiormente a rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19 (quelle obese o in età avanzata) siano in molti casi le stesse in cui di solito si registra una carenza di vitamina D. Si tratta però, come in tutti i casi di correlazione, di ipotesi il cui possibile nesso di causa ed effetto è ancora da verificare. L’osservazione ha però spinto alcuni ricercatori a pensare che proprio la vitamina D possa avere un ruolo nella prevenzione e nel trattamento della malattia causata dal nuovo coronavirus.
In effetti, le conoscenze attuali sui meccanismi d’azione della vitamina D potrebbero sostenere l’ipotesi: la molecola è coinvolta nelle reazioni immunitarie contro i virus e inoltre regola le risposte antinfiammatorie in caso di malattie respiratorie. “È possibile che aumentare i livelli di vitamina D possa ridurre l’impatto del Covid-19, soprattutto nelle popolazioni dove i livelli sono in genere scarsi” concludono gli autori, sottolineando che la raccomandazione varrebbe per chi ha un livello di vitamina D particolarmente basso.
Sono diversi i risultati di studi già pubblicati o attualmente in corso per cercare di dare una risposta a queste domande. Tuttavia, non ci sono al momento dati sufficienti per raccomandare l’uso di supplementi di vitamina D per prevenire o trattare il Covid-19, come gli esperti del National Institute for Health and Care Excellence (NICE), nel Regno Unito, hanno scritto, a dicembre 2020, nelle linee guida redatte in base a tutti i più recenti studi su vitamina D e Covid-19. Tra le conclusioni si legge che e che è importante approfondire la conoscenza di questo tema attraverso nuovi studi.