«Saviano? Non credo alla letteratura di denuncia»
di Redazione

Io non sono di origini siciliane, sono profondamente siciliano», esordisce Domenico Cacopardo, lo scrittore magistrato, che con il suo ultimo libro “Agrò e la deliziosa vedova Carpino” (edizioni Marsilio), ritorna a raccontare le vicende del suo alter ego, il sostituto procuratore Italo Agrò, giovane alle prese con la sua prima inchiesta. Non a caso il personaggio si chiama così: c’è un amore viscerale per la terra delle origini, Letojanni appunto, e la Val D’Agrò, uno dei siti più belli della Sicilia Orientale. «Ho delle visioni della memoria profonde, io e mio padre che da quel lungomare nel 1941 guardiamo i bagliori di fuoco e di cannonate che giungono dalla Calabria, nei pressi di Stilo e nei giorni successivi i cadaveri dei soldati che vengono trasportati nelle nostre coste. Ma anche il mare che ospitò una colonia di delfini che aspettava ogni giorno che io li nutrissi con sarde e acciughe. Poi inerpicarsi per l’entroterra, passando per Mongiuffi, Melìa, Limina e Roccafiorita, osservare il mare dall’alto. In questi luoghi nasce la tradizione culinaria della “carne al forno”, i poveri contadini rubavano qualche capra che poi cocevano in dei buchi scavati nella terra per non farsi scoprire, aggiungendo delle piante aromatiche che davano un sapore unico a quelle carni che ancora oggi vengono cucinate in rudimentali forni a pietra…». Inizia così la conversazione con lo scrittore, tra ricordi di vita e amori letterari.
Cacopardo, quali sono stati i suoi riferimenti letterari?
«Innanzitutto i luoghi in cui ho vissuto da ragazzo e da giovane e poi la cultura siciliana che si respirava nelle case e nelle famiglie. Ho avuto una zia insegnante che è stata un archivio ambulante di storie e di sicilianità, ma il primo grande siciliano che ho incrociato è stato Salvatore Quasimodo che frequentava la stessa scuola di mio padre e di mio zio. Quando arrivò la sua prima raccolta di versi con dedica a casa attirò molto la mia attenzione, poi Vittorini, lessi per la prima volta “Conversazione in Sicilia” e rimasi folgorato. Da quel momento parte il mio percorso dentro la letteratura siciliana alta che, per inciso, non dovremo definire siciliana, perché in realtà questi autori hanno dato un contributo importante alla cultura europea. Sciascia è il mio punto d’arrivo, anche se oggi in realtà è Vincenzo Consolo, che mi onora della sua amicizia e io considero il più grande scrittore italiano vivente. Sono scandalizzato del fatto che Mondadori non gli abbia ancora dedicato un Meridiano, la sua interpretazione del mondo siciliano è inimitabile».
Lei è un uomo della riviera jonica messinese come lo era Stefano D’Arrigo. Che ruolo ha avuto questo scrittore per lei?
«Forse sono uno dei primi ad averlo letto e riletto, perché essendo anch’io un abitante dello Stretto ero curioso di capire il suo linguaggio di visionario, quasi inaccessibile al grande pubblico. Da studente collaboravo con una rivista letteraria e lì scrissi che “Horcynus Orca” non aveva nulla da invidiare a “I Promessi sposi” e poteva considerarsi come uno dei grandi capolavori della letteratura. E’ grave che sia poco conosciuto…».
Come ha conciliato la sua attività di magistrato con quella di scrittore?
«Dopo il liceo avrei dovuto iscrivermi a Lettere, invece la tradizione paterna mi portò agli studi giuridici, anche se dopo aver finito Giurisprudenza mi ero iscritto a Filosofia giungendo a tre esami dalla laurea. Sono sempre stato un appassionato di letteratura anche se le scelte della vita mi hanno portato a un’altra professione. Anni fa, ammalato a Letojanni, ritornai nella mia casa paterna e scoprii che esistevano novantatrè miei plot di romanzi o racconti…».
Quali sono i libri che le hanno cambiato la vita?
«”L’età della ragione” “Il rinvio” e “La morte nell’anima” di Jean Paul Sartre.
Potrebbe tornare alla poesia?
«E’ in uscita nella primavera del 2011 con l’editore Aragno di Torino “Il verso dell’innocenza”, nel quale vengono pubblicate le mie poesie dal 1988 a oggi».
Che ruolo deve avere la narrativa nella società italiana di oggi?
«Non credo alla cosiddetta “letteratura di denuncia”. “Gomorra” è una specie di inchiesta meritoria che nulla ha a che vedere con la letteratura. Non ho ancora capito chi sia Saviano: un eroe o un lucido utilizzatore della scrittura. Il ruolo della letteratura, oggi come ieri, è quello di raccontare la realtà o le fantasie dei suoi autori contribuendo alla crescita culturale del paese. Anni fa, al Beaubourg di Parigi vennero messi in mostra, nello stesso piano, i quadri dei pittori astratti e quelli dei ricoverati nel manicomio cittadino. Era impossibile distinguere l’eziogenesi delle due tipologie. Così è la letteratura. L’unica distinzione che si può e si deve fare è tra buona e cattiva letteratura. Punto. Non c’è altro discrimine».
© Riproduzione riservata