Il 23 ottobre è il centenario della nascita del grande scrittore, riscoperto da genitori e maestri in questo periodo di ansia e incertezza
di Giuseppe Gaetano

“Se in casa sono solo non mi lagno, con la mia libreria/ io sono sempre in buona compagnia”. Così Gianni Rodari, negli anni 70. “Se io avessi una botteguccia fatta di una sola stanza, vorrei mettermi a vendere sai cosa? La speranza”. Il genio si misura sulla distanza, non passa di moda perché non l’ha mai seguita, solca le generazioni. Durante la quarantena genitori e insegnanti – cresciuti con le sue filastrocche – sono ricorsi spesso inconsapevolmente alla sua Grammatica della fantasia, inventando e pubblicando sui social storie e rime per spiegare ai bimbi perché all’improvviso la scuola era chiusa, non si poteva più andare al parco o a trovare nonni e amichetti, e perché toccava infilarsi guanti e mascherine per uscire. Versi per provare a domesticizzare l’assurdo, umanizzare l’ansia, dare orizzonte a una battaglia: per chi viveva distante è stato davvero il tempo delle Favole al telefono.
“Favole”, non “fiabe”. Due mondi a parte. L’ambientazione delle prime è realistica, le vicende aderenti alla quotidianità, l’elemento magico per lo più assente. La favola non vuole solo intrattenere come Biancaneve e Cappuccetto Rosso ma – come La volpe e l’uva o La cicala e la formica – veicolare un messaggio, una riflessione. La favola legge e interpreta la realtà, ambisce a migliorare il mondo, istillando il seme del pensiero critico senza che lettore e ascoltatore se n’accorgano. E a far crescere pian piano quel seme, innaffiandolo con gli episodi di ogni giorno. Favole bambine e adulte, leggere e profonde, in cui la densità dei contenuti viene porta con grazia e delicatezza. Il successo planetario dello scrittore piemontese fa perno su una dimensione difficilissima da ottenere nell’arte: la semplicità. Un concetto, anche questo, molto diverso dalla “facilità” e che riguarda l’essenzialità degli elementi narrativi, la loro comprensibilità e linearità. Quello dei bambini è il pubblico più difficile da catturare: per i ridotti tempi d’attenzione, l’assenza di filtri e preconcetti, la continua stimolazione di cui necessitano. Chi riesce a far breccia nei loro cuori, conquista il mondo. L’essenza dell’arte non è forse la comunicazione?
L’inconfondibile stile esopico di Rodari è capace di parlare a tutti – alunni e docenti, operai e intellettuali – di temi complessi come la fame, il consumismo, la disoccupazione, la guerra. Ma non insolubili: nulla, secondo lui, resiste alla lunga alla forza di volontà dell’uomo. La contemporaneità della sua visione della società e delle relazioni tra classi sociali riemerge anche in questioni banali. Come quando l’anno scorso Salvini propose di rispolverare il grembiule a scuola. «Un maestro mi ha detto: “Se non ci fosse i bambini poveri avrebbero l’umiliazione di mostrare le toppe nei pantaloni”. Questo ragionamento non mi convince. La povertà va abolita, non nascosta. Bambini con le toppe nei pantaloni non ce ne dovrebbero essere – scriveva nel 1968 sul Corriere dei piccoli, scusandosi garbatamente coi lettori di occuparsi per una volta di una “polemica” (di cui spiegò l’etimologia) -. Un altro mi ha detto: “Il grembiulino aiuta la disciplina”. Nemmeno questo mi convince: la scuola non è una caserma. Secondo me una classe non è disciplinata quando ascolta immobile le spiegazioni pena un brutto voto in condotta, ma quando sta facendo una cosa così interessante che a nessuno viene in mente di guardare fuori dalla finestra (…) Un grembiule – concludeva – mi sembra indispensabile se si fa del giardinaggio, per non sporcarsi».
Rodari ci dice come la pensa anche su altri fatti recenti ma tragici, come la strage del ponte di Genova. Il Ladro di erre è una filastrocca dal sapore trilussiano del Libro degli Errori, scritta proprio quando iniziarono i lavori del cavalcavia Morandi, nel ’63, ma riferita a un altro crollo avvenuto quell’anno. «C’è chi dà la colpa alle piene di primavera/ al peso di un grassone che viaggiava in autocorriera: io non mi meraviglio che il ponte sia crollato/ perché l’avevano fatto di cemento «amato». Invece doveva essere armato, s’intende/ ma la erre c’è sempre qualcuno che se la prende (…) In conclusione, il ponte è colato a picco/ e il ladro di “erre” è diventato ricco: passeggia per la città, va al mare d’estate/ e in tasca gli tintinnano le “erre” rubate». In mezzo secolo non siamo avanzati di un millimetro. Rodari invece guardava avanti, con le antenne premonitrici dell’artista che vede prima cosa c’è dietro l’angolo e ci avverte. O ci prova. I piccoli di allora oggi sono maturi, ma Rodari li ha sempre trattati da “grandi”: non li voleva allineati sulle mode ma liberi di sperimentare, educati con la fiducia in loro stessi. Eterna attualità di un’intelligenza che si è tanto celebrata senza assorbirne il sostrato valoriale, senza penetrarne il senso né decifrarne il testamento profetico. Nato 100 anni fa, scomparso da 40: la sua capacità di insegnare divertendo scavalca internet e le nuove tecnologie finendo in post, meme, ebook. Saprebbe anche oggi – su Whatsapp, Zoom o Skype – trovare le immagini giuste per raccontare di un dramma come il virus, senza spaventare. Al contrario donando la prospettiva, il lieto fine per cui vale combattere ogni sfida: l’impegno per la rinascita, la promessa della ricostruzione, il coraggio di non smettere di sognare. Che non è far finta di essere un’altra persona in un altro posto, ma continuare a credere di poter essere utili a qualcosa.
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