La psicologia di un personaggio adulto e complesso, diviso tra la missione di salvare l’umanità dalla sua stessa inedia e quello di rendere felice una bimba
di Redazione

Roma – “Questa storia è ambientata tanto tempo fa, nel lontano 2976…”. Geniale fin nell’incipit del primo episodio, Capitan Harlock è stato molto più di un semplice cartoon per bambini: è stato una critica feroce alla deriva della cosiddetta civiltà del progresso, tanto che alcune puntate furono anche censurate. Il pirata spaziale dell’83enne Akira «Leiji» Matsumoto sbarcò in Italia, in Rai, esattamente 42 anni fa: il 9 aprile 1979. Splendida la colonna sonora, complessa e adulta la psicologia dell’eroe dai lunghi silenzi: taciturno, abituato a centellinare le parole, che sembra raccogliere nello sguardo del suo unico occhio tutto il peso dei misteri dell’Universo e dell’animo umano. Un uomo, senza super poteri: le uniche sue armi, oltre a un pugnale (e a volte una pistola), sono l’intelligenza tattica e il sangue freddo. La calma imperturbabile e i nervi di ghiaccio che riesce a tirare fuori quando tutto sembra perduto. Ma Harlock è stato anche sentimento, emozione. Molto del suo tormento esistenziale ruota intorno a Mayu, la bimba orfana del suo migliore amico: darle un futuro felice è forse il vero ‘altro’ scopo, personale e privato – oltre a quello, ufficiale, di riportare un’etica sulla Terra – della battaglia contro tutti intrapresa dal protagonista. L’immagine-simbolo della indimenticabile sigla finale delle puntate, dice tutto dell’ambivalenza della storia: una piccola che insegue a braccia aperte un tetro vascello, di cui tutti avrebbero paura, che si rialza in volo.
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