L’immagine di una suora a spiaggia che vigila qualcuno necessariamente mi ha obbligato a risuscitare vecchi fantasmi della mia prima giovinezza, fatti e visi di un tempo passato.
Ognuno di noi ha un archivio segreto del cuore nel quale immagazzina le emozioni. Bastano, però, una somiglianza e un nonnulla, perché esse riaffiorino nella mente con la forza del loro vissuto.
Eravamo in Sicilia in piena estate del 1937.
Mio papà faceva la spola tra la città e la frazione marinara nella quale aveva costruito una comoda casa.
Eravamo partiti per la villeggiatura subito dopo la festa della Madonna del Carmine perché Carmela, mia sorella, di qualche anno più grande di me, festeggiava in quella data il suo onomastico.
Ogni partenza per la villeggiatura era sempre traumatica. Mia madre preparava con l’aiuto di Ninetta, la nostra serva affezionata e devota, mille pacchetti che regolarmente scatenavano i malumori di mio padre. Non voleva lasciare in città niente che potesse servirle. I vestiti miei, di mia sorella, le camicie e le uniformi di papà, gli abiti suoi e di Ninetta, i costumi da bagno per noi ragazzi. Della biancheria, in verità, alla fine di ogni estate e per l’altra successiva rimaneva per comodità nei cassetti dei mobili della casa del mare ma il tanfo acre di salsedine che essa emanava era insopportabile. Per tale motivo le lenzuola, le copertine dei letti rigorosamente facevano parte delle masserizie che migravano dalla città al mare.
Ninetta, poi, all’arrivo aveva un bel daffare a lavare tutto ciò che poteva essere lavato.
Avevo da poco compiuto quattordici anni. Non ero ancora considerato un adulto e per questo continuavo a fare il bagno con mia sorella e mia madre nella parte del lido destinata alle signore e nelle ore stabilite per loro.
Ninetta di primo mattino mi accompagnava in spiaggia. Io portavo l’ombrellone che poi mi divertivo a piantare nella sabbia umida. Lei portava una cesta con i cambi che depositava in una delle cabine affittate per noi da papà.
Indossavo un costumino a righe di maglina che mi copriva il corpo fin sopra le ginocchia. Un cappello di paglia mi proteggeva il viso e gli occhi dal sole.
Ninetta era più apprensiva di mia madre. In spiaggia indossava un lungo camice bianco come mia madre e spesso quando si bagnava le si attaccava al corpo, ai seni, alle cosce rivelandone le forme e i volumi.
Ninetta badava che non mi allontanassi troppo, che non entrassi in acqua prima dell’arrivo di mia madre e di mia sorella. In un cestino di vimini portava anche fette di pane farcite con un po’ di marmellata e una bottiglia di limonata per dissetare la mia sete. Qualche biscotto.
Ogni anno, una parte del lido era recintata con rete metallica e paletti perché destinata a colonia marina.
Vedevo arrivare ragazzi della mia età in drappello già di primo mattino.
Guardavo curioso e affascinato il rito dell’ “alzabandiera”, il saluto fascista, un canto e una preghiera e poi i giochi. Il fischio delle suore, così atteso e sperato, autorizzava i ragazzi a entrare in acqua sguazzando in uno specchio di mare semi circolare vigilato dalle varie istitutrici. Una linea invalicabile costruita dai loro corpi e dalle loro braccia che avrebbe scoraggiato qualsiasi fuga e consentiva una sicurezza necessaria.
Mia sorella mi aveva insegnato a nuotare ma dubito che molti ragazzi della colonia sapessero farlo.
A volte qualcuno lanciava occhiate curiose al nostro ombrellone ed io non a caso mi sentivo un privilegiato.
Quando guardavo con insistenza verso quella direzione, mia madre mi rimproverava.
- Sono ragazzi più poveri ma non meno fortunati di te. – Mi ricordava. -
E non sapeva quanto li invidiassi!
Ai ragazzi spesso si alternavano le ragazze.
Come sempre arrivavano in drappello.
Anche quella mattina. Stesso copione, stesso rituale.
Conoscevo le istitutrici, quelle non cambiavano mai. Neppure le suore della Croce Rossa che coordinavano le istitutrici.
Osservai con curiosità i movimenti impacciati delle nuove arrivate. Il mare per loro doveva essere una grande novità. Passavo il mio tempo a far volare un aquilone dai colori sgargianti che senza vento a volte neppure si alzava da terra.
L’avevo costruito con le mie mani, aiutato da papà e ne andavo fiero. Attirava comunque l’attenzione e la curiosità delle ragazze: questo mi divertiva.
Un giorno si levò una brezza leggera dal mare e l’aquilone cominciò a salire su, su nel cielo, fino a quando tutto lo spago glielo consentì. Persi il controllo inavvertitamente e l’aquilone cadde come un passero ferito dentro il recinto della colonia estiva.
Lo raccolse subito una ragazzina che prima non avevo notato. Capelli biondi raccolti in due trecce d’oro, due occhi azzurri velati di malinconia. Una pelle bianchissima che non aveva conosciuto il sole. Lo portò con garbo fino alla rete ed io con un salto cercai di riprenderlo, aiutato da lei.
- Grazie. – Dissi. – Come ti chiami?-
- Anna. – Rispose. – E tu? –
- Bruno. – Non feci a tempo a chiedere altro. Un’istitutrice la richiamò correndole anche incontro.
Le ragazze della colonia mi sembravano delle piccole recluse, somigliavano agli uccelli in gabbia dello zio Ninì.
Anna più volte si voltò a guardarmi, mentre si allontanava strattonata dall’istitutrice e questo mi turbò profondamente.
Tutte le mattine aspettavo che il drappello arrivasse. La cercavo con gli occhi. M’illudevo che anche lei lo facesse e forse lo faceva.
Un giorno feci volare il mio aquilone e, dopo, apposta gli diedi tutto lo spago e lo liberai. Cadde come il solito dentro il recinto della colonia.
Anna, che stava sempre un po’ in disparte, corse a raccattarlo. Venne alla rete e me lo porse come la prima volta. Avevo preso dal cestino di Ninetta il fagottino con le fette di pane e marmellata per regalarglielo e le avevo anche scritto un biglietto nel quale confessavo le mie più segrete fantasie di ragazzo.
Non feci a tempo a darle il fagottino col pane. L’istitutrice, subito allertata da una suora, come una furia si fiondò su di lei rimproverandola con parole severe. La condusse verso il posto dove erano tutte le altre.
Anna aveva ghermito tuttavia il biglietto dalle mie mani, attraverso la rete, senza che l’istitutrice se ne fosse accorta.
La seguii, mentre lei si voltava a guardarmi, con lo sguardo di chi vede allontanarsi per sempre una persona cara e una speranza. Piansi.
Ninetta raccontò tutto a mia madre che questa volta non mi rimproverò.
A cena papà non fu molto loquace quella sera e mia sorella con una scusa tagliò la corda prima del previsto.
-Va a letto anche tu. – Disse mia madre con una voce più indulgente del solito. – Domani sarà un giorno importante, lo sai? Verrà il Duce tra noi. Non vorrai fare aspettare zio Ciccino che vi dà uno strappo con la sua automobile. Bisogna partecipare tutti a Ragusa alla grande parata.-
Obbedii.
Zio Ciccino era il podestà. Aveva la passione delle macchine e il vizio delle donne.
Era corpulento, atletico, molto maschile. Una barbetta curata, la battuta insidiosa e facile.
Arrivò puntuale. Eravamo già pronti. Papà come zio Ciccino era in alta uniforme. Io vestito per la prima volta da “avanguardista”. Mia sorella nella sua divisa di “giovane italiana”.
A vedermi nei pani della nuova divisa, zio Ciccino mi diede uno scappellotto e, rivolgendosi a mio padre, esclamò compiaciuto:
- Cresce il giovanotto!-
Mio padre si sedette al suo fianco nel sedile del passeggero. Io e mia sorella andammo dietro.
Zio Ciccino salutò con un colpo di clacson mia madre, sua sorella, mentre lei gli sciorinava come in una litania le dovute raccomandazioni di guida.
Arrivammo a Ragusa. Prendemmo posto nella piazza dell’Impero facendoci largo a gomitate in un oceano di gente.
Dopo una lunga attesa, Mussolini, in un elegantissimo completo di lino bianco, si materializzò come un ectoplasma sull’arengario della Casa del Fascio.
Un boato attraversò la piazza tra grida isteriche che inneggiavano al Duce, cori e acclamazioni di “Evviva”.
A braccia conserte Mussolini parlò al suo popolo con la retorica e l’oratoria di sempre.
Di ritorno zio Ciccino commentava con papà il discorso. Definiva la visita “un’occasione unica, un momento sublime, un tempo fortunato segnato dalla storia”.
Ero stanco. Mi addormentai durante il viaggio sulla spalla di mia sorella. Sognai Anna. Il giorno dopo non vidi l’ora di andare al lido con Ninetta.
Aspettai pazientemente che il drappello delle piccole italiane comparisse. Cercai la ragazzina con gli occhi ardenti di chi aveva preso la sua prima cottarella.
Anna non c’era. E non venne neppure in seguito. Non la vidi più. I giorni che seguirono furono di una tristezza infinita. L’aquilone rimase relegato fra i giocattoli di casa, la notte piangevo per un addio di cui non sapevo darmi pace.
Persi anche l’appetito. La mamma capì e si preoccupò.
A pranzo, dopo qualche settimana, mio papà finalmente ruppe il suo silenzio.
- Anch’io – raccontò - m’innamorai di una ragazzina alla tua età. È normale che succeda. È il segnale che sei cresciuto e sei diventato uomo. Domani t’insegnerò a radere i peli del viso che sono già molti. – Mi fece una carezza con la mano.
- E che ne fu di quella ragazzina? – Gli chiesi tra lo stupore della mamma e la curiosità morbosa di mia sorella.
- Chi la ricorda più? – Rispose infastidito, chiudendo definitivamente l’argomento.
Aspettando i discorsi del Duce, la radio del farmacista, nostro vicino, a tutto volume trasmetteva un programma di canzoni.
“Vivere “ cantava Carlo Buti “senza malinconia/ vivere senza più gelosia/senza rimpianti, senza mai più conoscere cos’è l’amore/cogliere il più bel fiore, goder la vita e far tacere il cuore…”
Mi rinchiudevo in camera mia e fissavo per ore con occhi persi il cielo della stanza. Non riuscivo purtroppo a far tacere il cuore, a mettere in pratica, cioè, il consiglio che dava la canzone che era anche quello dato da papà nel desiderio di consolarmi.
Col tempo, invecchiando, “Vivere” diventò la canzone che più di tutte rappresentò quel tempo antico.
Un tempo che non seppi rimuovere, il cui ricordo mi commuove sempre fino alle lacrime. Una stagione unica che trovò nello sguardo tenero e supplichevole di una ragazzina bionda dagli occhi azzurri, allontanata dalla colonia estiva a causa mia per la sola colpa di essere stata scelta da me come il primo amore della mia vita, la sua più potente immagine.
© Tutti i diritti riservati all’Autore. Ogni riferimento a personaggi e fatti reali è puramente casuale. Divieto di riproduzione anche parziale del racconto.
Foto di copertina di Giampiero Renzi. Qui sotto, una incisione della canzone "Vivere", cantata da Carlo Buti, accompagnata da splendide stampe liberty.