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Racconto. Vent'anni

"Ero una ballerina all’Avana. – Raccontò la donna con pudore e vergogna"

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 Vent’anni sono tanti quando i ricordi si fanno irresistibili e bussano alla tua mente come degli implacabili esattori.

Lui la guardava sul letto esausta e abbandonata al suo destino. Le rughe si erano fatte molto più pronunciate sul viso dopo la malattia. La bellezza che aveva fatto della sua vita la molla irresistibile del suo fascino ora sembrava appartenere a un’altra creatura, non più a lei che in verità l’aveva sempre posseduta.

- Tuo padre – disse con un leggero sussurro la donna – sarebbe stato fiero di te, se solo ti avesse conosciuto. –

L’uomo la guardò con curiosità e sorpresa. Mai lei gli aveva parlato del padre. Sapeva di averlo perso durante la guerra civile cubana sulla Sierra Maestra, fucilato dalle squadre di Batista in un rastrellamento di castristi. Le strinse forte la mano per dare ala ai suoi rimorsi e spingerla a raccontargli una verità taciuta per tutta un’esistenza.

- Dimmi, allora, madre.- La esortò.

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- No. Tuo padre non fu un guerrigliero comunista, come sempre ho voluto far credere e non combatteva a fianco di Castro. – Lei emise un penoso sospiro che le costò vari colpi di tosse. 

Lui ora la guardava quasi con rabbia, senza perdere per un istante i suoi occhi.

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- Ero una ballerina all’Avana. – Raccontò la donna con pudore e vergogna. – Intrattenevo, in effetti, i clienti in un celebre “café” di lusso della capitale. Uno dei miei cavalli di battaglia era la canzone “Veynte años”,  la cantavo quando lui una sera apparve nel locale e s’innamorò di me. Ballavo ma soprattutto amai. Una donna avvenente non passava “por desapercibida” nella Cuba notturna del Generale Batista. 

Tuo padre era arrivato all’Avana da New York. Era bellissimo, robusto, elegante: indossava con disinvoltura un panama, vestiva di lino beige, fumava grossi sigari. Gli somigli molto. Era un signore maturo mentre io ero una giovane promettente entraîneuse. Ostentava una ricchezza non comune che, ovviamente, subito mi convinse a ricambiare la sua corte spietata. Lo circondava un alone di mistero e fu per questo che anch’io m’innamorai. Ero addirittura gelosa delle mie compagne che tentarono più volte di strapparmelo. Più tardi seppi la verità su di lui. -

- Quale verità? Visto che me ne hai raccontate tante. – La rimproverò con stizza il figlio.

- Quando ti partorii, mi chiesero che nome darti ed io ti diedi i miei due cognomi e il nome suo, ti saresti dovuto insospettire per questo nome che porti. -

- Mi chiamo Guillermo Duarte y Silva, ma Guillermo non è così raro da queste parti e in Spagna. – Obiettò l’uomo.

- No. No. Lui non era spagnolo, anche se parlava correttamente il castigliano, lui era siciliano, isolano come me, come noi, originario di una parte antica della Sicilia di cui spesso mi raccontava favoleggiando, quando la nostalgia della patria lontana gli soffocava in gola i singhiozzi e negli occhi, irresistibili, spuntavano lacrime. Una Sicilia greca, fatta di templi e di rovine, di sole e di mare e di spiagge sconfinate dalla sabbia d’oro, ma anche una Sicilia povera e perseguitata. Un passato fascista, per il quale la polizia italiana lo inseguiva nel Dopoguerra, lo aveva spinto come tanti a emigrare nella sospirata America. Si era stabilito a New York. –

- Fin qui nulla di strano. Tutto mi pare anche scontato. – La incalzò il figlio. - Non ho capito perché poi lui non volle riconoscermi… qualcosa non quadra. –

- Non poteva. – Rispose la donna con un tono di voce nel quale non era difficile sentire la rassegnazione e il perdono. - Lui era già un uomo sposato e con una famiglia nella sua terra, moglie e figli a carico dei quali conservava un cocente rimorso. A Cuba era venuto come persona di fiducia di un clan di siciliani coinvolti nel racket del tabacco e forse questo era solo uno dei suoi molteplici incarichi qua. Dei suoi veri interessi politici non parlò mai. Lo uccisero i castristi, quando Batista fu costretto alla fuga. Lo vidi a terra in un lago di sangue, dopo un’incursione a mitraglia fatta da guerriglieri nel locale dove lui abitualmente s’intratteneva con me tra un numero e l’atro, tra una canzone e l’altra. Mi ero salvata dalla mattanza, costretta dalla tua gravidanza in camerino, per un’indisposizione passeggera. -

-Caspita! – Esclamò l’uomo. – Vivere per tutta una vita pensando a una verità totalmente diversa e scoprirne una ora, quando tu sei ormai anziana e malata, non è roba di poco conto. Da sempre in me c’è stata un’avversione per il regime di Castro, un rigetto del suo comunismo malato fatto di modelli utopici, ormai superati dalla Storia, ma Cosa Nostra no! Non posso accettare di essere il figlio di un mafioso. –

- Mi restano solo istanti di vita. – Profferì lei, dopo un lungo silenzio. – Ti supplico, apri quella scatola legata con uno spago dalla quale lui non si separava mai. Troverai le sue foto, le lettere, le cartoline che riceveva dalla Sicilia, dalla sua terra. Se un giorno vorrai scoprire le tue origini lontane, là dentro troverai i suoi ultimi ricordi. -

Guillermo prese la scatola che la madre indicava e la strinse forte tra le mani come se contenesse le ceneri di un padre ritrovato. In verità, conteneva brandelli di memoria.

- Promettimi che lo farai, che andrai a cercarlo là dove lui è sempre stato e dove ancora il suo cuore sarà. Io, questo coraggio non l’ho mai avuto e mi sono mancate anche le risorse economiche per farlo. –

Il figlio sentì la mano della madre stringere forte la sua, in un’ultima disperata richiesta.

- Sì, sì. – Promise con un filo di voce.

- Scicli… - Mormorò lei scandendo le sillabe, quasi strascicandole. – E’ una parola impronunciabile ma è la chiave del suo e del tuo mistero. –

- Che cos’è? – Chiese lui. - Che cosa vuol dire? –

- Non so. – Rispose la donna. – Apri la scatola e lo saprai. -

Lui la guardò con apprensione e vide che le era calato un velo agli occhi, la testa reclinata sul petto, le pupille immobili e perse fra le pieghe del lenzuolo.

Ora finalmente capiva perché quando lei cantava nei café dove lavorava  “Veynte años”, lo splendido bolero di Maria Teresa Vera, quasi sempre le si inumidivano gli occhi di pianto.

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