Scicli - Il 7 ottobre 2024 scorso ricorreva il centocinquantesimo anniversario della sconsacrazione del venerabile Duomo di impianto normanno di San Matteo di Scicli.
Una data così infausta che non l’avremmo voluta celebrare mai.
La sconsacrazione fu, a dirla col can. Giovanni Pacetto, autore di una dettagliata memoria, necessaria.
Nel suo scritto destinato ai “Posteri”, che saremmo noi, così poco attenti e interessati all’evento sinistro, l’unica grande preoccupazione del Canonico era di scagionare l’Arciprete pro-tempore del Duomo, il carmelitano Dott. Don Carmelo Maltese, dall’accusa infamante di averla voluta.
Per la verità, a volerla non fu solo l’Arciprete, al quale la salita pesava più di una grande penitenza, ma altri canonici e soprattutto il Primo Assessore facente funzione di Sindaco, il cav/ don Ignazio Penna Nicolaci.
Solo a Mons. Benedetto Guarneri La Vecchia, quarto vescovo della Diocesi di Noto, eretta nel 1844, di cui la città di Scicli era vicariato, era venuto uno scrupolo che più che di natura spirituale era di natura amministrativa. Il vescovo, infatti, si preoccupò di chiedere l’autorizzazione alla Santa Sede per trasferire l’antica cattedra della Matrice sciclitana dal Duomo di San Matteo nella Chiesa del Collegio dei Gesuiti, Sant’Ignazio, acquisita al Pubblico Demanio dopo la cacciata dei Gesuiti dall’Isola operata da Giuseppe Garibaldi.
Il can/ Pacetto, nella Memoria, insiste nella condanna di una classe dirigente anticlericale che si era particolarmente rivelata ostile sin dalle prime decadi dell’Ottocento e ora soprattutto in Garibaldi e nel nuovo Stato Unitario trovava gli strumenti amministrativi necessari per combattere tutto ciò che “putiva di Sagrestia e di Campanile”.
Una mezza verità, la ragione addotta dal canonico.
In effetti, le rendite e i censi di cui il Duomo godeva erano andati perduti e anche il contributo municipale annuo di sessanta onze, da elargire metà per la festa del Santo Patrono, il Beato Guglielmo Cuffitella, e metà per sopperire alle più impellenti necessità del vetusto tempio, era stato negato dalle Amministrazioni Comunali del tempo.
Il Duomo, abbandonato a se stesso e alle intemperie per quasi cinquant’anni, non poteva che andare in rovina.
Il sospetto che Pacetto faccia di tutto pur di non insinuarlo è che “consapevolmente”, per la posizione scomoda della Matrice, il Clero lasciò che tutto accadesse e che la “volontà della Storia” si compisse.
Ma la gente, che assisteva rabbiosa alla processione solenne con la quale il 7 ottobre 1874, festa della Madonna del Rosario, si sgomberò il sacro Tempio delle Acque Lustrali, degli Oli Santi e del Santissimo Sacramento, ben conosceva la verità e gli interessi che dietro a questo inutile sacrilegio si celavano.
Furono ricavate somme modeste dalla vendita di una parte delle strutture che potette essere recuperata. A dimostrare come l’operazione fosse stata un pessimo esempio di Amministrazione pubblica.
Pur di evitare ripensamenti e linciaggi da parte della folla imprecante, si pensò bene di sfondare subito le volte e di consegnare il Duomo, ormai profanato, alla misericordia di Dio in un acceso impeto iconoclasta.
Il Duomo d’impianto normanno che per circa ottocento anni aveva resistito a qualsiasi insulto ed era stato riconsegnato restaurato al Signore, dopo il terribile terremoto del 1693 che in parte lo aveva distrutto, con le elemosine dei Padri tuttavia restava ora testimone muto dell’ignoranza dei nipoti.
Ancora oggi il Duomo, recentemente rabberciato con fondi pubblici, è al suo posto, vigile sentinella di un’aurora che forse tarda ad annunciare il giorno a una città in gravi difficoltà, rea di aver voluto cancellare con la profanazione ogni traccia del suo glorioso passato.
Gli uomini, invece, che vollero e permisero quest’orrendo stupro della Storia, passarono come la gloria del mondo di cui si servirono per questa losca impresa. Di essi non è rimasta, infatti, memoria.
Crediti
Pacetto G., Memorie istoriche civili ed ecclesiastiche della città di Scicli, Ms, Biblioteca Comunale di Scicli “C. La Rocca”.
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Foto Luigi Nifosì.