"Ci vorrebbe proprio una mamma di scorta, come la ruota dell'automobile"
di Giuseppe Savà

Scicli – “Chi asciugava i pianti miei?
Mamma buona era lei…
Chi in cucina cucinava?
Mamma cuoca canticchiava…”
Io e le mie sorelle non riuscivamo a pronunciarlo quel nome: e così ribattezzammo “Citrulla” l’incolpevole “Suor Getulia”.
Il nostro universo era popolato da fatine vestite di nero, coi capelli sempre ben nascosti. Suor Noemi, la più anziana: per cinque lire ci vendeva le caramelle a forma di pesciolino.
Suor Getulia, col suo colorito meticcio e la stazza corpulenta, metteva sui fornelli quell’enorme pentola, che un giorno o l’altra l’avrebbe mangiata tutta sola: sembrava uscita da “Via col vento”.
E poi Suor Concetta: bella, scura di carnagione, giovane, materna. Dell’asilo delle Suore del Divino Zelo di Jungi ricordo alcuni flash.
La volta in cui le suore ci portarono nella cappella, spiegandoci che dentro una scatola con l’ostia c’era il corpo di Gesù Cristo. Provai una grande emozione. Pensavo di essere fortunato a frequentare un asilo così importante.
E poi quella volta (avrò avuto poco più di due anni) che feci la pipì addosso. La sorella provvide a farmi indossare un pannolino, a me che sembravo essermi divincolato da questo obbligo; lo fece per evitare pericolose ricadute, e mi disse di raccontarlo alla mamma: l’indomani avrei dovuto portarle un pannolino nuovo, per risarcirla. Fu un trauma.
Il pulmino che veniva a prenderci ogni mattino era un Volkswagen dove facevamo a gara a salire sulla cappelliera. Ricordo ancora il giorno in cui prendemmo, per via dell’interruzione dei lavori della strada principale, la salita di via Udine, e Salvatore esclamò, rivolto all’autista: “Mi sa che tummiamo all’indietro come lo scarafaggio”.
Le recite erano il momento più atteso: Fabio fece il Principe Azzurro ed Elena Biancaneve, io, Ezia e Cettina, le mie sorelle, ancora balbettanti, recitammo la nostra prima poesia. Chiudeva così: “Ci vorrebbe proprio una mamma di scorta, come la ruota dell’automobile”.
Ricordo Emilio Cuffaro e Don Mimì, alla pianola, che sembrava un organo a più piani, con i tasti colorati per cambiare tono e strumento musicale. Un giocattolo per adulti, inarrivabile.
C’era Leo: rovesciava la scodella con la pasta e legumi dentro il cestino, pur di evitare ceci e fave.
Mamma racconta che tra le prime cose che imparammo ci fu la tecnica per asciugarsi le mani e per evitare che gocciolasse l’acqua a terra: lavate le mani, io Ezia e Cettina le univamo come per pregare e iniziavamo a farle scorrere sul bordo del lavabo, per evitare che cadessero le gocce.
Ho rivisto Suor Concetta qualche anno dopo, ero all’elementare, alla “Festa dello Ciao”, organizzata dalla chiesa Madre. Bella, solare, materna. Non ho più saputo dove vivesse e che fine avesse fatto. Ci sono persone dell’infanzia che entrano direttamente nella dimensione del sogno, del vissuto/non vissuto.
Non ho avuto mai la curiosità di chiedere se l’avessero trasferita in un altro asilo o se fosse ancora lì a Jungi.
Ho sempre immaginato che continuasse a insegnare come si disegna una “A”, attingendo con la colla vinilica i chicchi di riso e ponendoli in fila su un disegno a matita.
Ieri sera, ho appreso che Suor Concetta è morta quattro anni fa. Circa. Ed è quel circa che mi rode. Perchè non l’ho saputo, non l’abbiamo saputo in molti.
E dire che per molti di noi era come una seconda mamma.
La ruota di scorta dell’automobile della nostra infanzia.
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