Cultura
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05/03/2009 17:02

Enti intermedi e nuovi modelli di sviluppo, Il caso dell’industria ragusana

di Redazione

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Il preside Enzo Giannone fa dono a ScicliNews di un suo prezioso saggio sulla storia dell’Asi e del polo industriale di Ragusa.

Il divario tra Nord e Mezzogiorno dell’Italia si è andato sempre più accentuandosi nel corso degli ultimi decenni, anche se paradossalmente dagli indici disponibili è provato che il divario di prodotto pro-capite tra Sud e resto del paese si è ridotto lievemente in questi ultimi quarant’anni: il prodotto pro-capite del sud, pari al 56% di quello del centro-Nord nel 1951-55, è salito al 62% nel 1971-75, per poi scendere al 58% nel 1986-88. Anche il tasso di crescita dell’occupazione è stato lievemente superiore al Sud rispetto al Centro-Nord.
Ciò che soprattutto colpisce è l’insoddisfazione di non essere riusciti a innestare anche nel Mezzogiorno uno sviluppo autopropulsivo in grado di avviare una vera crescita produttiva, a fronte invece di una crescita fortemente condizionata dai trasferimenti dello stato.
Una parte di responsabilità per il mancato sviluppo autopropulsivo può essere ascritta al tipo di intervento straordinario che vi si è effettuato, cioè quindi alle scelte del centro che ha operato, per lungo tempo, scelte di politica economica che hanno finito col drogare il sistema produttivo del Mezzogiorno, rendendolo di fatto dipendente da periodici interventi ricostituenti da parte dello Stato o della Regione.
In questo orizzonte centralista e dirigista, per molti aspetti assistenzialista e funzionale anche agli equilibri del potere politico del Sud, si è consumato il sogno industrialista. La provincia di Ragusa ne è un esempio paradigmatico. La grande industria si è sgretolata col passare del tempo, sotto i colpi nefasti delle congiunture economiche che non le hanno lasciato scampo alcuno.
Il mito della grande industria
Soprattutto l’industria pubblica, quella delle partecipazioni statali e regionali, che aveva contribuito a creare la grande illusione industrialista, si è dissolta. Tutte le speranze degli ultimi decenni per la creazione di un polo industriale ragusano dalle grandi velleità sono svanite, nonostante la presenza dell’AGIP e dell’ENI, che sul territorio avevano impiantato i propri apparati, lasciasse presagire un significativo futuro.
Anche in provincia di Ragusa la storia della grande industria delle partecipazioni statali è una sorta di grande parabola in cui dalle speranze iniziali si è arrivati a tetti occupazionali di notevole riguardo senza che però tutto ciò comportasse una reale crescita in competitività e presenza sui mercati, con la conseguenza che, al momento della crisi delle partecipazioni statali, quelle ragusane hanno pagato pesantemente tale crisi in termini di ridimensionamento degli impianti e di crollo dell’occupazione.
Ancora più grave le conseguenze della fine delle partecipazioni regionali, alimentate per un ventennio dalle finanze allegre della Regione siciliana.
L’AZASI, l’ente economico regionale creato a Modica per operare essenzialmente nel settore edile, con le sue collegate, soprattutto IMAC e SCAM, ha raggiunto notevoli livelli occupazionali, senza raggiungere invece nessun utile, o quasi. Il problema consisteva nel caso dell’AZASI, ma si potrebbe generalizzare per tutti gli enti economici regionali, nella creazione di un apparato, con annesso il personale, senza alcun piano industriale e senza serie prospettive di affermazione nei mercati di riferimento. Stando così le cose, per l’AZASI come per tutti gli altri enti, la fine era segnata e la liquidazione inevitabile, con conseguenze negative sul piano occupazionale, che hanno peraltro contribuito in maniera molto consistente ad alimentare in quest’ultimo decennio in Sicilia un fenomeno di precariato diffuso e fortemente instabile sul piano del conflitto sociale.
La parabola della grande impresa pubblica si snoda tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, egemonizzando largamente il quadro industriale ragusano, “sviluppando attività finalizzate a risolvere i suoi problemi e soddisfare i suoi interessi, ma non fornendo all’ambiente alcun tipo di cultura industriale né alcun contributo allo sviluppo di attività collaterali o complementari” (G. Chessari).
Dall’assistenzialismo al localismo
A questa vecchia logica gli operatori economici ragusani, insieme ad una parte illuminata dei gruppi dirigenti nel loro complesso, hanno via via opposto quella della piccola e media impresa, da far crescere e rafforzare in un tessuto industriale diffuso. E da sostenere attraverso tutta una serie di interventi, innanzitutto di tipo infrastrutturale. Interventi in cui il territorio diventa centro esso stesso di riferimento per gli interessi socio-economici.
Chiusa la stagione del centralismo assistenzialista, si è avviata una nuova fase che potremmo definire del localismo: una fase che passa attraverso una maggiore responsabilizzazione delle periferie e delle autonomie locali, in primo luogo di quelle politiche. Si è tentato di credere e investire in una filosofia nuova, basata su quella che qualche anno fa Giuseppe De Rita, allora presidente del CNEL, definiva “territorializzazione delle soluzioni ai problemi del lavoro e dello sviluppo economico autogeno” Una filosofia, basata sulla cooperazione sul territorio tra attori pubblici e privati e sul “capitale sociale””, definita alcuni anni fa dall’allora Commissario europeo alle politiche regionali, MoniKa Wulf-Mathies, come “l’unica strategia per creare occupazione nelle aree depresse”.
Un ruolo determinante in tutto ciò lo hanno rivestito, o almeno dovevano, gli enti intermedi, comuni, provincie, regione. Il loro compito era, in un contesto quale quello siciliano fortemente penalizzato dal sostanziale fallimento delle politiche economiche eterodirette dal centro, quello di rinvenire e applicare risorse atte a favorire una forma di integrazione economica e sociale adeguate al resto dell’Italia e ormai dell’Europa, propiziando occasioni per il potenziamento delle attività produttive, a partire da alcune precondizioni da realizzare prioritariamente.
C’è da rilevare che non sempre in Sicilia questo ruolo è stato assolto consapevolmente ed organicamente dagli enti locali. Spesso è mancata proprio quella progettualità di base, quella visione d’insieme necessaria per creare un clima favorevole alla valorizzazione delle risorse endogene e al miglioramento dell’ambiente sociale sul territorio in grado di stimolare la cooperazione degli attori sociali.
Lo si constata anche in provincia di Ragusa, dove anche se gli enti intermedi, attraverso in particolare il Consorzio ASI, hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo della piccola e media impresa, molti pur tuttavia rimangono i ritardi, soprattutto sul piano infrastrutturale, addebitabili proprio agli enti intermedi – Regione siciliana innanzitutto.
Ancora oggi continua ad essere lamentata, in particolare dal mondo imprenditoriale, la mancanza di un progetto e di un impegno comune concertato tra la categoria degli industriali e i soggetti pubblici. E questo nonostante sia opinione diffusa che l’economia ragusana, caratterizzata a partire dagli anni settanta dalla presenza e dal ruolo della piccola e media impresa, abbia fatto registrare negli ultimi trent’anni una lunga fase di crescita tanto da far affermare che è esistito ed esiste un modello di sviluppo ibleo fortemente differenziato rispetto al resto della Sicilia.
Un modello ibleo di sviluppo
A cominciare dagli anni settanta, nonostante le difficoltà esistenti, in provincia di Ragusa, a differenza dell’area di Gela e della stessa area di Priolo-Siracusa, si è sviluppata una certa imprenditorialità locale diversificata, che ha dato vita ad un tessuto di imprese industriali, di piccole ma anche di medie dimensioni, tra i più consistenti, se rapportato al numero degli abitanti, fra quelli delle aree regionali interessate allo sviluppo industriale.
Dai dati dei censimenti generali dell’industria dal 1971 ad oggi emerge infatti che comunque dagli anni settanta si è registrata in provincia di Ragusa una certa crescita delle attività industriali. In particolare si è registrata un’espansione delle industrie alimentari, della gomma e della plastica, dei materiali da costruzione, e di quelle siderurgiche, metalmeccaniche, poligrafiche e dei mezzi di trasporto, mentre sono rimasti stazionari i settori tessile, del legno e del mobilio.
I censimenti attestano anche un consistente aumento dei livelli occupazionali. Ma è da sottolineare che tale aumento è dovuto esclusivamente allo sviluppo della piccola e media impresa. Nello stesso periodo infatti, non solo la grande impresa non ha dato nessun contributo all’aumento dell’occupazione, ma ha avviato un processo di graduale ma costante riduzione dei livelli occupazionali che con il passare degli anni è diventato sempre più grave ed allarmante. Il caso più emblematico è quello dell’ANIC, ex ABCD. L’occupazione nella maggiore industria della provincia di Ragusa ha registrato via via un tracollo che ha trascinato con sé molti altri posti di lavoro nell’indotto.
Della crescita invece della piccola e media impresa e della formazione di un artigianato più robusto sia nei servizi che nei vari settori produttivi, sono testimonianza materiale visibile gli agglomerati industriali di Ragusa e Modica-Pozzallo, dove un ruolo di primo piano è stato svolto tra gli anni settanta e gli anni novanta dal Consorzio ASI di Ragusa.
La storia dell’ASI ragusana inizia nel 1963, anno in cui si costituiva con apposito Statuto il Consorzio per il nucleo di sviluppo industriale, trasformato nel 1973 in Area di sviluppo industriale. Gli enti consorziati erano la Regione Siciliana, l’Amministrazione provinciale, la Camera di Commercio, l’ENI, l’EMS, l’AZASI, l’IRFIS, l’ACI, la Banca Agricola Popolare di Ragusa, i comuni di Ragusa, Modica, Pozzallo, Scicli. Nel corso degli anni settanta e ottanta, alcuni di questi enti usciranno dal Consorzio – in particolare le società regionali – mentre ne subentreranno altri: l’Assoindustria, la CNA, CISL, UIL, CISNAL, nonché tutti gli altri comuni della provincia, e cioè Ispica, Santa Croce Camerina, Vittoria, Comiso, Acate, Chiaramente Gulfi, Monterosso Almo, Giarratana.
Il comprensorio consortile è costituito dal territorio dell’intera provincia di Ragusa con una superficie di Kmq 1.614 e comprende due agglomerati, il nucleo originario di Ragusa e l’agglomerato di Modica-Pozzallo, nato nel 1971. Entrambi gli agglomerati sono stati dotati per tempo dei rispettivi piani regolatori: quello di Ragusa sin dal 1968, quello di Modica-Pozzallo nel 1974. Entrambi i piani sono stati successivamente più volte variati e rivisti.
L’agglomerato ASI di Ragusa
Nell’agglomerato industriale di Ragusa nel 1966 erano insediate 3 imprese, di cui 1 con un numero di trenta addetti, 1 con un numero di 170 addetti, 1 con un numero di 1.047 addetti. Nel 1973 vi erano insediate in esercizio 6 imprese, 3 con un numero di addetti tra dieci e  diciannove, 3 tra venti e quarantanove. Nel 1979 il numero delle imprese in esercizio insediate saliva a 37, comprese le tre grandi società preesistenti (ANIC, SOMICEM e Ancione), che nel frattempo erano state inglobate nell’agglomerato con la variante al piano del 1978. Di queste 37 imprese  4 con un numero di addetti tra tre e cinque, 2 tra sei e nove, 15 tra dieci e diciannove, 11 tra venti e quarantanove, 2 tra cinquanta e novantanove, 1 tra cento e centonovantanove, 2 oltre duecento. Nel 1989 le imprese in esercizio insediate erano 65 di cui 9 con un numero di addetti tra tre e cinque, 4 tra sei e nove, 25 tra dieci e diciannove, 20 tra venti e quarantanove, 4 tra cinquanta e novantanove, 1 tra cento e centonovantanove, 2 oltre duecento. Nel 1998 risultano infine insediate 133 imprese di cui 2 con un numero di due addetti, 35 con un numero di addetti tra tre e cinque, 15 tra sei e nove, 28 tra dieci e diciannove, 17 tra venti e quarantanove, 2 tra cinquanta e novantanove, 1 tra cento e centonovantanove, 2 oltre duecento.
Come si vede dai dati, il numero delle imprese insediate è cresciuto costantemente a partire dalla seconda metà degli anni Settanta; nello stesso tempo aumenta significativamente il numero delle piccole e medie imprese, mentre resta pressoché costante quello delle grandi imprese. Rilevante appare inoltre il dato, riferito agli anni novanta, della piccola impresa con meno di dieci addetti, risultato tangibile della svolta operata dal Consorzio di Ragusa negli anni ottanta a favore dell’insediamento delle attività artigianali, destinando ad esse il 15% della superficie complessiva.
L’agglomerato ASI di Modica-Pozzallo
Il discorso cambia notevolmente per l’agglomerato di Modica-Pozzallo. Indubbiamente in generale per tutto l’agglomerato di Modica-Pozzallo, ivi compreso il porto di Pozzallo, si sono registrati ritardi e probabilmente errori di valutazione nella programmazione degli interventi.
Anche se l’attività consortile è stato certamente influenzata in negativo dall’apposizione nel 1993 da parte della Regione Siciliana del vincolo paesaggistico su un’area pari a circa il 70% dell’agglomerato, il limite più grave è stato probabilmente  proprio il vecchio piano regolatore del 1974 che prevedeva, in diverse zone dell’agglomerato dei macro lotti industriali di notevoli dimensioni che si sono rivelati sovradimensionati rispetto ai bisogni del tipo d’insediamento industriale che può operare in provincia di Ragusa.
Le scelte fatte nel 1974 risentivano del clima dell’epoca e della convinzione allora diffusa, soprattutto nella classe politica modicana, tradizionale feudo democristiano e cislino, che l’agglomerato di Modica-Pozzallo potesse diventare il polo per i grossi insediamenti delle industrie pubbliche. Il risultato è stato che dal 1973 al 1998 il numero delle aziende in esercizio è rimasto pressoché invariato: da tre a quattro grosse aziende, di cui due, pubbliche, l’IMAC e l’INSICEM con più di cento addetti, prima della crisi irreversibile degli anni novanta.
Solo nel 1994 il Consorzio ha destinato il 15% delle aree dell’agglomerato di Modica-Pozzallo ad insediamenti di tipo artigianali, e nel 1997 infine ha deciso di destinare un’area di 8 ettari ad insediamenti di tipo commerciale. Questo ritardo è segno probabilmente anche di uno scarso interesse generale, e quindi anche delle imprese artigiane, verso un’agglomerato fortemente decentrato rispetto a Modica, e localizzato invece in un’area a ridosso di Pozzallo sede storica dell’AZASI prima, dell’IMAC e dell’INSICEM poi. L’economia di Modica peraltro, storicamente imperniata sull’agricoltura e sull’allevamento, si è riorientata a partire dagli anni settanta sia per la presenza dell’AZASI, sia e soprattutto proprio per lo sviluppo della piccola impresa artigiana e commerciale. Negli anni Settanta il piano regolatore della città ha creato, attraverso determinate scelte urbanistiche, le condizioni per questa crescita, a dir il vero non sempre guidata e a tratti anzi confusa proprio a livello di pianificazione del territorio e programmazione economica. Comunque, probabilmente le decisioni del Consorzio sono arrivate troppo tardi rispetto a quanto già si era sviluppato nella città. Una città che peraltro, negli anni novanta, ha continuato la sua crescita, ora incentrata soprattutto sulle attività di distribuzione commerciale che ne hanno fatto uno dei poli della grande distribuzione più importanti della Sicilia.
La questione del porto di Pozzallo
Ritardi analoghi ha subito la realizzazione del porto di Pozzallo, che può essere assimilata, con riferimento a standard nazionali ed europei, alle strutture di trasporto marittimo realizzate a valle di aree industriali.
L’esigenza di realizzare una infrastruttura portuale a Pozzallo data al lontano 1955 quando, probabilmente sull’onda della scoperta di giacimenti petroliferi, si elaborò un primo progetto per un porto isola, adatto per l’importazione e l’esportazione di prodotti liquidi, in particolare idrocarburi. Nel 1960 il porto isola cominciò ad essere costruito attraverso la realizzazione di un primo pontile. Nel 1966 il completamento dell’opera venne incluso nel piano di coordinamento della Cassa per il Mezzogiorno. Nel 1968 venne approvato il progetto esecutivo per la realizzazione del porto isola. Nel 1970 fu indetta la gara d’appalto per il primo tratto della diga foranea ma i lavori non furono mai avviati a causa della lievitazione dei costi che non consentiva la realizzazione di tutta l’opera.
Eppure, come emerge anche da un’indagine, eseguita nel 1974, in merito alle previsioni ed alle aspettative degli operatori economici della provincia di Ragusa, l’esigenza del porto era sentita negli ambienti economici e politici della provincia come condizione irrinunciabile per lo sviluppo dell’apparato industriale e dell’intera economia della zona, alla luce anche delle gravi carenze infrastrutturali che di fatto all’inizio degli anni settanta isolavano la provincia iblea dal resto dell’isola e dell’Italia. Uno studio dei primi anni settanta sulla tendenza dell’impiego dei vettori marittimi per la movimentazione delle merci da e per le industrie locali aveva peraltro evidenziato in prospettiva un traffico potenziale via mare nella zona di Pozzallo di circa 500.000 tonnellate annue per gli anni novanta, di cui 300.000 tonnellate annue in colli e la parte restante in sacchi.
Fu grazie soprattutto all’impegno del gruppo comunista all’Assemblea Regionale Siciliana che la realizzazione del porto di Pozzallo diventò una questione non più solo ragusana, ma siciliana e addirittura nazionale. In seguito ad una mozione del gruppo, votata all’unanimità dall’Assemblea, il porto di Pozzallo venne fatto inserire alla Cassa per il Mezzogiorno nel 1973 tra le opere da realizzare con il Progetto speciale N° 2 relativo alle infrastrutture della zona Sud-Orientale della Sicilia.
La realizzazione della nuova struttura portuale di Pozzallo è stata curata dal Consorzio ASI di Ragusa, in qualità di ente concessionario di finanziamenti della ex Cassa per il Mezzogiorno, in tre lotti complementari che hanno determinato la struttura nel suo assetto attuale.
Nel 1979 il Consorzio commissionò la progettazione della nuova infrastruttura portuale, in grado di movimentare i traffici programmati. L’intervento per la costruzione del porto ha avuto inizio nell’ottobre 1982 ed è stato ultimato, fino al suo assetto attuale, nel dicembre 1996, è costato complessivamente circa 150 miliardi di lire e rappresenta l’investimento pubblico più rilevante dal dopoguerra ad oggi in provincia di Ragusa. Nonostante necessiti ancora di alcune opere complementari, il porto è in piena attività dall’inizio degli anni novanta. Il volume di traffico sia delle merci che dei passeggeri, secondo i dati forniti dal Circomare di Pozzallo, è stato in costante aumento.    
In particolare, la quasi totalità delle merci in uscita è stata costituita da cemento e polietilene, ovvero dai prodotti delle vecchie aziende pubbliche ricadenti nell’area del Consorzio ASI di Ragusa. Questo è un dato molto significativo, perché può essere assunto come segnale del fatto che le potenzialità dello scalo pozzallese non sono ancora state sfruttate appieno, soprattutto a fronte della situazione di grave carenza strutturale sia del sistema viario che di quello ferroviario che permane, penalizzando fortemente il sistema produttivo ibleo. L’ente gestore del porto si è mosso in questi ultimi anni, seppur tra polemiche spesso roventi, in questa direzione, individuando diverse possibilità di utilizzo della struttura: “mercantile al servizio soprattutto del settore agro-alimentare legato alle ricche produzioni ortofrutticole, base dell’economia ragusana; industriale, collegato alle attività industriale dei due agglomerati dell’ASI; come base di appoggio logistico alle attività di “off-shore” presenti al largo delle coste ragusane; per il controllo delle coste meridionali della Sicilia; come centro di riparazioni navali per unità di piccolo e medio tonnellaggio (fino a 1.000 tonnellate di stazza lorda); infine turistico che, anche se non previsto nel progetto originario, ha registrato negli ultimi anni un importante afflusso di passeggeri in transito” (ASI di Ragusa, Il porto di Pozzallo, Ragusa 1999). Ma il futuro del porto resta fortemente incerto e l’opera potrebbe diventare, se non lo è già, l’ennesima cattedrale nel deserto.
Il mancato terzo polo industriale
Ritardi ancora più gravi si scontano nella parte occidentale della provincia di Ragusa, dove non è decollata l’idea di un terzo polo di sviluppo industriale che servisse le economie di città come Vittoria, Comiso, Chiaramente Gulfi, Santa Croce. E ciò nonostante il lungo  dibattito sull’esigenza di realizzare questa nuova zona di concentrazione industriale: un dibattito che ha le sue origini negli anni settanta e che si incentra intorno alla discussione se tentare la carta dell’industrializzazione anche per la fascia di territorio cosiddetta “trasformata” della provincia, la “polpa”, cioè la zona costiera che da Scicli prosegue fino a Santa Croce Camerina e Vittoria, interessata a partire dagli anni sessanta ad una vera e propria rivoluzione agricola nel campo della serricoltura che ha fatto di queste campagne una delle aree più sviluppate e ricche del Mezzogiorno, con una struttura economica fondata sulla piccola azienda agraria. La conclusione di tale discussione ha portato da un lato a privilegiare la continuità agricola, con scelte condizionate anche sul piano politico dai gruppi dirigenti delle principali “città agricole”, tradizionalmente radicate a sinistra, dall’altro a chiedere comunque la formazione di un terzo agglomerato per offrire un’ulteriore possibilità di sviluppo all’area, soprattutto in direzione del settore agrindustriale.
Alla fine del 1981 pertanto il Consorzio ASI decise di svolgere uno studio socio-economico per l’acquisizione degli elementi utili al fine dell’individuazione della zona di concentrazione industriale del terzo agglomerato nel territorio di Comiso e Vittoria. Intanto nel febbraio dello stesso anno, su specifica richiesta del Consorzio, la Regione Siciliana aveva autorizzato la redazione della variante al piano regolatore generale dell’ASI di Ragusa per il territorio di Comiso e Vittoria, individuando l’area lungo la S.S. 115 Ragusa-Gela, nel tratto tra Comiso e Vittoria, come zona della nuova potenziale concentrazione industriale.
Tra il 1987 e il 1990 è stata elaborata tale variante, che ha previsto l’ubicazione del terzo agglomerato non più lungo la SS. 115 bensì in contrada Piombo, nel territorio di Ragusa, ma molto vicina a Santa Croce Camerina, nel cuore della fascia trasformata terricola. Il progetto della variante è stato adottato dal Consorzio ma ad esso ha dato parere negativo nel 1993, di fatto bloccandone ogni ulteriore sviluppo, l’amministrazione provinciale.
Solo negli ultimi anni novanta il Consorzio ha ricominciato a prendere in considerazione l’ipotesi del terzo agglomerato, muovendosi di concerto con l’amministrazione provinciale e soprattutto quelle comunali  interessate alla realizzazione del terzo polo industriale, e cioè Comiso, Vittoria, Santa Croce Camerina, Acate e Chiaramente Gulfi. In questi comuni peraltro sono già attualmente operanti zone di agglomerazione artigianale. 
Il Consorzio ASI ha studiato, anche sulla base di tali elementi già esistenti, una nuova ipotesi di piano del terzo agglomerato industriale con una configurazione a macchia di leopardo per quanto attiene le aree artigianali e di piccola industria, da suddividere in cinque, distinte, zone di intervento da ubicare secondo i rispettivi piani regolatori urbani, con due grossi poli in prossimità dei due centri più sviluppati (Comiso e Vittoria) e piccole zone a Chiaramente Gulfi, Acate e Santa Croce Camerina. Ma anche questa  è una vicenda in via di definizione. Tanto più importante se collegata alle difficoltà odierne della serricoltura iblea.

Enzo Giannone,
storico