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15/03/2008 13:16

Esterni indigesti nelle liste dei partiti. Ha ragione il dissenso?

di Redazione

I socialisti facevano le liste per assicurare ai big la rielezione, i comunisti per fare entrare in Parlamento i “migliori”, secondo gli organigrammi disegnati dagli organi centrali. I primi evitavano accuratamente candidati competitivi, i secondi sacrificavano le scelte territoriali sull’altare degli interessi del partito, interpretati dal vertice. Un sacerdozio severo, chiamato centralismo democratico.

Gli esterni nelle liste? I socialisti accettavano uomini bandiera, come Pietro Nenni o Francesco De Martino, al massimo Claudio Martelli, ex Ministro della Giustizia. Icone della tradizione o della nomenclatura.

Nel Pci, il quadro intermedio da eleggere poteva venire da Bologna o da Torino, e nessuno avrebbe avuto nulla da obiettare. In campagna elettorale i socialisti s’accontentavano dell’onda lunga pur di non turbare gli equilibri interni, servendosi delle celebri “cordate”, moltiplicatrici di preferenze, irraggiungibili dai “solisti”; nel Pci gli “esterni” scelti dalla Direzione erano un dogma di fede, tanto che i voti da assegnare ad ogni candidato erano decisi a tavolino. A quale tradizione di sinistra si rifà il Partito Democratico? Un po’ all’una ed un po’ all’altra.

Ci sono gli ex democristiani, è vero, ma i democristiani amavano la rappresentanza territoriale, fin troppo in verità. Il dissenso “interno” alla composizione delle liste PD ha rivelato una identità immatura del gruppo dirigente, imputabile ai tempi ravvicinati fra la costituzione del nuovo partito e l’impegno elettorale.

Le elezioni sono arrivate mentre gli ex della Margherita e dei Democratici di sinistra lavoravano per amalgamare i due schieramenti senza perderci niente.

Missione impossibile in tempi brevi. La scelta di candidare in Sicilia una pattuglia folta di “esterni”, e di farlo a scapito di alcune aree territoriali, come le province di Siracusa e Ragusa, è figlia di questa condizione.

Poteva essere evitata? Probabilmente sì, ma ora il PD deve fare i conti con l’handicap che si è conquistato a causa del dissenso provocato dagli esterni, handicap pesante, tanto da determinare uno stallo nella crescita dei potenziali consensi che il PD andava cogliendo.I siciliani del PD non hanno digerito gli esterni. Un mal di pancia sicilianista, secondo un autorevole analista, Giuseppe Provenzano (Repubblica, 11.3.08). Quello degli esterni, scrive Provenzano, costituisce un falso problema: gli esterni, se sono bravi, possono aiutare la Sicilia meglio dei siciliani.

Nelle aziende efficienti, quel che conta non è il luogo di nascita, ma la competenza.

È il manegment che fa la differenza. Diagnosi: la difficoltà di digestione degli esterni è una somatizzazione del sicilianismo, malessere che ha impedito all’Isola di fare significativi passi avanti.

Argomenti condivisibili, ma non adatti alla circostanza. La democrazia, infatti, non è un’azienda, ma il sistema di governo della società; la politica non è tecnica ed efficienza, ma l’arte del possibile, la ricerca della soluzione migliore nella condizione data, l’espressione del dissenso “adulto” e del consenso consapevole; il partito non è un’intrapresa pubblica o privata, ma uno strumento di cui i cittadini si servono per dare forza alle loro idee ed ai loro propositi; infine, l’autonomia siciliana non è sicilianismo, ma una legittima istanza di autogoverno. La società non può essere governata come un’azienda, perché vive della costante partecipazione dei cittadini alle scelte attraverso la politica e i partiti; essa pretende cedole “ideali” e dividendi sociali. Il percorso obbligato, dunque, è la rappresentanza democratica dei bisogni legittimi dei cittadini, che è piena quando la conoscenza dei bisogni da soddisfare è profonda e il contatto con la gente, costante.

Il sapere si vive, non basta studiarlo.L’esterno, dunque, in una competizione elettorale che si prefigge di eleggere i rappresentanti di una comunità, può essere giustificato quando è la bandiera da sventolare, l’identità da mostrare, il messaggio da comunicare. Nulla di più. Il sicilianismo con il mal di pancia provocato dagli esterni c’entra poco e niente Nessun dirigente politico madrileno è riuscito a far digerire alle elezioni politiche un candidato andaluso o basco nella regione a statuto speciale della Catalogna.

I catalani sarebbero anche loro vittime di vetero-pulsioni terragne?I socialisti che componevano le loro liste in modo da non creare problemi ai capi, facevano una scelta a danno del loro partito, perché i buoni risultati si ottengono anche attraverso buoni candidati. Del pari i comunisti, che facevano la stessa scelta, privilegiavano la valorizzazione del gruppo dirigente, seppure per ragioni diverse, o la comunicazione sociale, i candidati – icone, come le vittime della mafia e del terrorismo, sacrificando la qualità della proposta e la rappresentanza territoriale.

Ma oggi non ci sono più né i socialisti, né i comunisti, – nel senso che non ci sono più come erano allora – e quei sistemi – la protezione de gruppi dirigenti – sono incompatibili con un partito aperto alla società e vocato a rappresentarla al meglio nel territorio. Non c’è il centralismo democratico e non ci sono le “quaterne” vincenti, ma una legge elettorale che affida la nomina di deputati e senatori ai gruppi dirigenti.

Una grande responsabilità, che impone equilibrio, ricerca accurata dei candidati “competenti” nel territorio.

Spogliare le comunità delle rappresentanze parlamentari dopo averli spogliati del diritto di sceglierli, non è stata, dunque, la risposta giusta. Le liste dei partiti hanno creato comunità di destino piuttosto che proporre candidati con eguali diritti ed eguali speranze di successo.

Mandare in Sicilia gli esterni, non ha significato solo proporli all’elettorato ma imporre la loro rappresentatività. Chi non ha gradito, può essere accusato di sicilianismo? Sulle nobili motivazioni, infine, che hanno spinto i gruppi dirigenti a fare largo uso degli esterni, meglio tacere.  

 

Fonte: Siciliainformazioni.com