di Un Uomo Libero.
Scicli – Sono informato dalla cronaca sugli ultimi adempimenti amministrativi per sgomberare dalla splendida Piazza Italia di Scicli l’ecomostro di palazzo Miccichè o Scuola Media Lipparini che dir si voglia.
La struttura fu quasi imposta negli anni Sessanta del Novecento dall’amministrazione comunale pro tempore nel nome di un Modernismo modaiolo con l’unica preoccupazione di spazzare con idee nuove la storia millenaria della città.
Fu, all’epoca, ricordo, un’operazione indecente, alla quale io ragazzo assistetti impotente come tanti cittadini.
La facciata settecentesca dell’antico collegio gesuitico che doveva far posto alla nuova costruzione, attaccata per settimane dalle ruspe, resisteva eroicamente, nonostante i beceri politicanti del tempo l’avessero definita a rischio crollo.
Quella classe politica, protagonista dello scempio, aveva sentito parlare di un famoso architetto brasiliano, Oscar Niemeyer, delle sue costruzioni avveniristiche e commissionò a un noto architetto ibleo l’attuale monumento nella speranza di passare alla Storia.
Nacque così nel cuore barocco di una città che più barocca non poteva immaginarsi una facciata sostitutiva del solenne e austero Collegio dei Padri Gesuiti la cui cappella/chiesa era diventata nel 1874, dopo l’epopea garibaldina, la nuova Matrice in surroga dell’altra antica e venerabile arroccata sul colle San Matteo d’impianto normanno.
Il Duomo di San Matteo, infatti, per esser diventati inesigibili i censi di cui godeva, per mancanza di manutenzione, dopo lunga ed estenuante trattativa, era stato barattato con la chiesa del Collegio, confiscata da Garibaldi ai Gesuiti espulsi dalla Sicilia e, per ciò, di proprietà del comune.
La chiesa del Collegio, dedicata a Sant’Ignazio vantava, a scapito del Duomo, una posizione centrale e comoda per quanto spesso messa in discussione dalla prossimità dell’argine del torrente San Bartolomeo che in passato molto aveva dato da temere con le sue terribili piene.
La riqualificazione dello spazio urbano secondo le mode del tempo che alla fine dell’Ottocento imperavano in Europa sull’esempio della progettazione del nuovo Boulevard Haussman di Parigi, diede il colpo di grazia all’altro tempio vetusto e carico di memorie di Santa Maria la Piazza. La Parrocchiale di S. Maria fu, infatti, abbattuta per far posto all’attuale Piazza Municipio e a parte di via Nazionale dalla cieca e bieca avversione di una classe dirigente che da tempo odorava a massoneria.
Scicli, nell’arco di pochi decenni, restava così priva delle sue radici religiose e storiche che per decine di secoli avevano alimentato la speranza cristiana del suo popolo.
Ebbene anche la massiccia e robusta struttura del Collegio dei gesuiti non ebbe purtroppo pace.
Nel tentativo iconoclasta di spazzare i segni di una dittatura fascista che aveva portato solo lutti e lacrime al Paese in rovina, i nuovi amministratori, negli anni Sessanta del Novecento, pensarono di eliminare due simboli che involontariamente avrebbero potuto ricordare l’abbattuto regime negli animi dei sopravvissuti: Palazzo Miccichè e il Palco della musica.
Davanti al primo spesso erano organizzate le adunate della Gioventù del Littorio.
Il palco della musica era stato costruito in epoca fascista.
In un colpo solo gli amministratori del tempo facevano fuori due simboli della grande cultura: l’istruzione e la musica.
Al posto della facciata del Collegio incastonarono un edificio avveniristico ispirato appunto alle seducenti architetture dell’architetto Niemeyer che le aveva realizzate a Brasilia.
Al posto del palco della musica costruirono un’anonima vasca con al centro rocce di mare che spesso e volentieri restavano a secco di acqua e qualche buontempone aveva insinuato che quella struttura fosse stata creata là a bella posta per dare la possibilità al sindaco del tempo di utilizzarla dal suo balcone a mo’ di privato vespasiano.
Un uomo illuminato, che per caso era capitato negli ultimi anni del Novecento in paese e aveva saputo che il palco della musica era stato solo smontato e conservato in un deposito del comune, diede ordine perentorio di rimontarlo e fu così che la città si riappropriò miracolosamente del suo primo monumento.
Restava l’altro, la rimozione della facciata “brasilia”, come volgarmente fu allora chiamata, opportunamente montata qualche metro più indietro del previsto in progetto per acquietare gli animi esasperati di quanti si erano opposti all’ignobile demolizione del Collegio.
Una consolazione che dura da tanti anni ormai perché non c’è più cosa definitiva di quella provvisoria.
Dopo il biasimo generalizzato di un’operazione tanto inopportuna, finalmente il progetto di ripristino pare che sia giunto ormai a termine.
Rifare la facciata sullo stile di quella abbattuta mi sembra un giusto risarcimento non solo alla Storia, al benefattore Miccichè che incautamente ci affidò le sue fortune, ai Gesuiti che là, fra quelle mura, furono messaggeri per secoli di cultura tra noi.
Se, però, abbiamo biasimato la furia iconoclasta di quelli che abbatterono il settecentesco Collegio, non possiamo oggi lodare il desiderio di quanti non vedono l’ora di tritare e polverizzare l’odierna facciata.
Invocherei, pertanto, un supplemento d’anima esortando gli attuali amministratori a essere più saggi dei loro predecessori e di creare un bando parallelo per smontare la facciata “brasilia”. Ricostruirla, a testimonianza di quel modernismo che si voleva introdurre in città negli anni Sessanta del secolo scorso con un intervento così rozzo e maldestro, lo ritengo un imperativo della coscienza.
In un’area comunale più consona la struttura, ispirata ai capolavori di Niemeyer, potrebbe recuperare l’arditezza dell’idea del progettista ibleo che a questa si era con intelligenza ispirato.
Spesso, vivendo a Madrid, mi è capitato di maturare questo mio pensiero ammirando gli sforzi compiuti nella capitale spagnola da un team di architetti che di due fabbriche anonime e brutte ne hanno fatto luoghi di cultura, d’incontro, di eccellenza.
Mi riferisco a Caxia Forum, una fabbrica triste, come la ricordavo io, oggi splendidamente trasformata in museo d’avanguardia, sollevata dal suo piano naturale e ristrutturata per accogliere ambienti che lasciano stupefatti per la genialità del lavoro compiuto, per l’eleganza acquistata.
Mi riferisco ancora alla vecchia fabbrica di birra che oggi ospita l’Archivio dei Protocolli della Comunità di Madrid, archivio da me giornalmente visitato.
Qualcuno potrebbe obiettare che Scicli non è Madrid. Che i fondi da investire sarebbero cospicui.
Se alla fine dell’Ottocento Scicli guardò a Parigi per risanare il suo piccolo centro storico perché oggi la città non può guardare a Madrid per rimodulare una struttura come l’attuale facciata di Palazzo Miccichè che potrebbe meravigliosamente rivivere, per una nuova opportunità, in un posto come l’attuale Villaggio Iungi, periferia moderna e perfetto luogo di espansione urbana per ospitarla?
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