Ciò che la macchina fotografia ferma, dall’ordinario aspetto comune si trasforma in qualcosa di sacro
di Pasquale Bellia

Firenze – Nella fotografia fine arte – realizzata per motivi artistici dove artistico deve essere l’intento del fotografo tramite il mezzo usato – si deve verificare la convergenza fruttuosa di diverse variabili nel loro equilibrio ed espressione massima. Non mi riferisco al fortunoso momento del reportage giornalistico, né alla fotografia sociale che spesso nel contrasto concettuale cerca potenza. Men che meno alle elaborazione in postproduzione. Ho a riferimento i valori compositivi, i gradienti luminosi negli equilibri dei toni cromatici e del chiaroscuro, le texture dei materiali disegnati dalla luce nelle sue variabili di incidenza, le relazioni tra le masse, la ricerca e l’individuazione del punctum, la struttura che regge l’immagine, ecc.
La fotografia, sono certo per esperienza, va oltre la trascrizione/descrizione di un dato reale nella sua riproduzione e registrazione. Esprime una visione del mondo che – tramite l’interpretazione nella sensibilità individuale – aggiunge senso al reale attraverso la soggettivazione del fotografo. In questo procedere per sottolineature è la differenza con il reale totale. Il fotografo, tramite il suo occhio assoluto e le scelte, credo possa perfezionare ed integrare la nostra capacità di vedere il mondo che ci circonda. Rendendo visibili fenomeni oggettivi che in condizioni normali sfuggono alla percezione della vista e del suo strumento ottico naturale: l’occhio umano. Ciò che la macchina fotografia ferma, dall’ordinario aspetto comune si trasforma in qualcosa di sacro. E la macchina fotografica, tramite il suo occhio lungo, ci può fare accorgere di un segreto che il nostro occhio non coglie. Quante volte ci accorgiamo solo nella fotografia di particolari che prima ci erano sfuggiti?
E sapete perché?
L’ambiente – sia naturale che artificiale – è un insieme strutturato e coerente di natura, e risultanze di azioni umane. Viverci dentro, nella velocità odierna, disorienta ogni percezione profonda. La fotografia, nella sua presa dal tutto nella sua metamorfosi bidimensionale, genera una realtà altra e dalla totale a tratti differente, accentrando l’attenzione su fatti prima sfuggiti. Nell’abilità di scelta e di portare via è la capacità del fotografo, indica il suo grado del vedere che trasmette a noi, in bilico tra realtà e sua rappresentazione. Un meccanismo dal racconto a tratti ambiguo, ma nella meraviglia che l’illusione della realtà può solidificarsi davanti all’obiettivo fotografico per la gioia dei nostri sensi, pronti a lasciarsi consapevolmente ingannare dalla fotografia in cui riproduzione e rappresentazione si intrecciano a formare un legame difficilmente districabile. Sì, ingannare! La fotografia, che si sforza di rappresentare veridicità, ha nella sua stessa tecnica il motivo del mentire applicando un’alterazione della realtà
E sapete perché?
Perché la fotografia sta per la realtà, fingendosi realtà, anche se nell’immacolata percezione. La fotografia ha sempre mentito perché non può fare altro. Perché il processo di trasposizione di una realtà nel suo derivato bidimensionale glielo impone, quello è una menzogna. Come si sostiene nella riduzione di scala in cartografia: la rappresentazione fedele del mondo … è il mondo stesso. Ogni riduzione – per generalizzazione – genera altro. Per sottolineare a continuare a credere in questo linguaggio fotografico, bisogna partecipare alla veridicità dell’immagine con le nostre sensibilità e memorie liberando la fotografia dalla estrema santificazione e da quella della demonizzazione.
Faremo, brevemente e per confronti, una digressione sui temi del vero e del falso nella fotografia nata sulla scia delle accese discussioni intorno al digitale e alla sua estrema manipolabilità. La “rivoluzione digitale”, in termini di rovesciamento del dogma referenziale della fotografia analogica, della sua assunzione di veridicità, è presente in molte raffigurazioni, fino a rappresentazioni pseudo fotografiche dove il mezzo di ripresa non esiste più. Le sembianze verso cui si cerca di porre l’attenzione sono a tratti sconvolgenti perché raffigurazioni di sole finzioni.
A parer mio si può accettare – con non poco sforzo dei puristi – le elaborazioni in HDR. Si possono tollerare le correzioni di esposizione e di lieve saturazione … ma quando la realtà viene “ridisegnata” non si tratta più di fotografia quanto di computer grafica.
Veniamo agli esempi: vi propongo delle fotografia di un lavoro fotografico svolto per la Regione Toscana e il Comune di Castiglione della Pescaia. Macchina medio formato (Zenza Bronica GS1) pellicola T MAX 100, pubblicazione Luoghi Vissuti, ed. ABC, Firenze 2005. Stampate a tutto fotogramma.
Altre fotografie di Sampieri, pubblicate in Architettura e Ambiente, ed. Scientific Press e GdS, Firenze, 1996. Macchine medio e grande formato Zenza Bronica GS1 e Arca Swiss 9×12. Varie pellicole.
Poi propongo la somma elaborata di immagini (da tre a cinque) con varie esposizioni, che generano quell’effetto irreale senza ombre (perché aperte dalle sovraesposizioni) e luci alte ben disegnate dell’HDR, (High Dynamic Range) che contiene valori di luminosità più ampio rispetto ad uno scatto digitale tradizionale.(vedi foto del Lago).
Quindi delle immagini (che appaiono fotografiche) di realtà inventate generate dall’elaboratore con programmi di renderizzazione (ArchiCAD, Cinema4D, 3DstudioM, Rhinoceros). Gli stessi che si usano nelle simulazioni dei progetti di architettura e che gli architetti – ultima generazione – sanno usare molto bene.
Due viste di arredamento simulati, ma inesistenti, generati con l’elaboratore.
Poi un’artista del mouse – che conosco personalmente – il giovane fiorentino che ha iniziato fotografando gli amici alpinisti e con la macchina fotografica si è fermato a quel punto, per passare alle elaborazione digitali di scene urbane: Giacomo Costa.
Giacomo, dopo quella brevissima e dilettantistica esperienza, decide di dedicarsi esclusivamente all’uso delle tecnologie 3D. Con questi nuovi strumenti – gli stessi usati per gli effetti speciali del cinema – crea immagini e scenari fotorealistici ma inesistenti, ponendo la sua ricerca a metà tra la pittura e la fotografia. La sua riflessione parte da ciò che comunemente angoscia il mondo contemporaneo, i disastri naturali, le speculazioni, l’inquinamento, il devastante impatto ambientale dello sviluppo insostenibile, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali traducendo queste ed altre tematiche in immagini. Si potrebbe sostenere un nuovo “manifesto del terzo paesaggio”.
Le immagini di Giacomo Costa – nella loro dichiarata invenzione tra rappresentazione onirica e reale – nella loro fedeltà diventano vere! E possono simulare e condizionare la realtà come prove del vero, come inserimenti nel controllo dell’impatto ambientale. (scopo per il quale nei progetti di architettura si elaborano quei foto-inserimenti).
Per chiudere – questo purtroppo lungo intervento – voglio riportare quanto scrissi nel 1996 sulla realtà e il suo distaccarsi progressivo.
Centocinquanta anni fa la fotografia, cento anni fa il cinema, cinquanta anni fa la televisione, oggi la realtà virtuale … Ogni mezzo secolo un salto verso l’autonomia delle immagini rispetto alla realtà, un’accelerazione (una fuga in avanti) sui tempi del nostro quotidiano. Forse è per questo che conviene ogni tanto tornare a posare lo sguardo su un’immagine fissa, su un istante colto nel suo farsi o scoperto nella discrezione del suo mistero. Una forma di resistenza alla piena che sta portando via tutto; forse un delirio; probabilmente un’ingiuria.
Tratto da “Architettura e Ambiente”, nell’introduzione a pag xv della pubblicazione.
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