L'Udc del dopo Cuffaro
di Redazione

Messina – «A un governo regionale che ha i volti di Caterina Chinnici, Giosuè Marino, Massimo Russo e Andrea Piraino non può esser negato il sostegno. E se il presidente Lombardo farà le riforme che ha detto di voler fare, l’Udc non farà mancare il suo contributo». Gianpiero D’Alia, capogruppo a Palazzo Madama dell’Unione di centro, e da molti indicato come leader in pectore dei casiniani nella Sicilia “decuffarizzata”, segna il punto di svolta di quello che anche nell’isola si appresta a diventare il Partito della Nazione. Non è un caso, non può esserlo, che Pierferdinando Casini e Rocco Buttiglione scelgano Messina per segnare l’avvio di una nuova stagione politica per lo scudocrociato nell’isola.
In due padiglioni del quartiere fieristico gremiti all’inverosimile, come a voler sottolineare che le truppe sono tutt’altro che in libera uscita e si muovono a prescindere dal fronte agrigentino o palermitano, gli interventi dell’on. Pippo Naro – «non poniamoci il problema delle alleanze, guardiamo alla grande area dell’astensione, alle esigenze delle famiglie, dei giovani e degli anziani» – e di D’Alia spianano la strada alle analisi di Rocco Buttiglione e del leader Casini: barra dritta al centro, «questo bipolarismo è fallito, come avevamo previsto, il Paese è in mano alla Lega, la crisi economica è gravissima e a pagar dazio è soprattutto il Mezzogiorno».
Ma la convention – i temi di carattere nazionale li affrontiamo a pagina 3, ndr – accende i suoi fari anche sugli aspetti eminentemente regionali. «Vogliamo un partito», afferma tra l’altro Buttiglione, «che dia un taglio a ogni possibile rapporto con aree equivoche della vita siciliana e con un certo metodo del clientelismo che ha inquinato questa politica». Il divorzio con Cuffaro, Mannino e Romano è un nervo scoperto, ma i toni non registrano impennate. «Mi dispiace», entra nel merito il presidente nazionale del partito, «che alcuni amici non condividano questo percorso, ma nessuno di loro potrà dire che va via perché vogliamo fare un governo con la sinistra. Non è vero. Se domani ci fossero le elezioni, noi andremmo da soli e otterremmo tanti voti da rendere impossibile la formazione di una maggioranza al Senato senza di noi».
Casini va oltre: «Nell’Udc ci sono dissensi con amici che hanno fatto cose importanti e che meritano rispetto, ma non possiamo cambiare strada e aggregarci con chi ha fallito», ossia il Pdl, «sarebbe la nostra fine. Accettare un posto a tavola come ripetutamente mi ha proposto il presidente del Consiglio non servirà a farci cambiare idea e a salvare l’Italia». Il riferimento a Cuffaro e a Mannino, inizialmente non citati, poi si fa diretto: «Il percorso compiuto insieme è stato lungo, i rapporti personali vanno salvaguardati perché contano più di ogni altra cosa, le strade possono invece dividersi, in politica queste cose accadono e non c’è da stupirsene».
Quasi a voler smentire di aver “gettato” in mare quella parte del partito – l’unica in Italia – che ha consentito all’Udc di avere una rappresentanza al Senato andando oltre lo sbarramento elettorale dell’8%, Casini sottolinea come non neghi che «taluni magistrati siano politicizzati. Non mi è piaciuto vedere magistrati sfilare in corteo contro Cuffaro. Sono fiero del mio garantismo, ma per essere credibili non si possono tollerare i corrotti e i disonesti, insomma i mercanti restino fuori dal tempi». La scelta di campo è netta, marcata non casualmente da quell’invito, accolto, formulato al procuratore nazionale antimafia Piero Grasso perché presenziasse alla convention di Chianciano, e che tanto ha mandato sulle furie i cuffariani.
Non va oltre Casini, che però incassa a stretto giro l’accusa di trasformismo da Saverio Romano, ma quella stagione è chiusa, oggi i problemi veri, le afflizioni autentiche, le registra il Paese e il Mezzogiorno. Le strategie di smantellamento della Fiat a Termini Imerese diventano allora la linea del Piave della disperazione siciliana, i precari della scuola di fatto espulsi dal sistema il paradigma di una politica antimeridionalista pretesa dalla Lega e condivisa da Tremonti. I dati sono impietosi: «La crisi», rende noto D’Alia, «ha incrementato di un milione il numero di disoccupati; i cassintegrati sono 650 mila; addirittura 15 milioni gli italiani che hanno dovuto contrarre i bisogni primari. E solo a luglio la produzione industriale è calata del 28% mentre il reddito medio fa registrare un saldo negativo del 7%».
La mancata nomina di un ministro dello Sviluppo economico diventa così la cartina di tornasole di una politica che ha perso di vista i problemi reali della gente, ripiegata su se stessa, tutta intenta a costruire dossier per scontri istituzionali. «Il federalismo non funzionerà», ammonisce Casini, «e quando Bossi ne prenderà atto dirà a quel punto che non resta che la secessione». Anche per questo «dalla Sicilia deve partire una nuova sfida».
Difficile non pensare che i compagni di strada non siano stati in qualche modo individuati: nel Pd, nel Mpa, nei finiani, magari non convergendo in fase elettorale ma dopo sì, negli emicicli parlamentari o nei Consigli regionali e locali.
© Riproduzione riservata