Cultura
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28/12/2010 08:59

Guccione: L’Italia senza Sicilia? Bisognerebbe nascere già vecchi

"Non vorrei essere in un posto diverso"

di Franca Antoci

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Piero Guccione
Piero Guccione

Scicli – «L’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto». Piero Guccione cita Goethe e ripete: «Qui è la chiave di tutto, nel bene come nel male, con una leggera prevalenza, aggiungerei, del male». La Sicilia come metafora dell’esistenza collettiva. La Sicilia come metafora dell’Unità d’Italia. E l’idea dell’Unità nasce da un’utopia. «Troppo recente, troppo giovane per essere concretamente e realmente realizzata». In fondo è nata nel 1861. Piero Guccione parla dell’Unità d’Italia come di una signora che ha bisogno della maturità per arricchire d’interiorità un involucro certamente invitante, ma povero di contenuti. «E’ passato troppo poco tempo perché si possa storicamente sintetizzare e fondere un popolo con peculiarità e caratteristiche profondamente diverse».
Non unisce vivere nella stessa terra, anzi.
«La nostra è stata terra di conquista. Ricca tanto da bastare a se stessa, ma di una dimensione territoriale tale da non consentirne l’autonomia. Con l’Italia o con un altro paese, la Sicilia sarebbe stata comunque una piccola parte di altro».
E l’essere siciliano?
«Mi riporta alle parole di Brancati: se la Sicilia e i siciliani non esistessero non avrei avuto nessuna ragione di venire al mondo, non avrei avuto nessun interesse di ritornare al mondo».
Oggi, comunque, parlare di Unità non è facile.
«Il Paese è frazionato, la gente è idrofoba, insoddisfatta. E forse, a parte l’ovvia contingenza, non capisce nemmeno perché. La sorte di quest’Isola, che è poi quella del Meridione e dell’Italia tutta, non la vede bene. A volte penso che siamo al limite della disperazione, perché tutto quello che di involutivo e di negativo può esserci nella nostra natura, in questi ultimi decenni di arbitrio economico, di sviluppo della furberia come forza di esistenza, come valore dell’esistenza, abbia influito negativamente sul senso della vita, della dignità e della responsabilità che bisogna avere per andare avanti in maniera ordinata, democratica e civile».
Eppure i Mille di Garibaldi sbarcarono proprio qui, in questo tacco di stivale geograficamente diviso da una striscia di mare e una di cielo. Proprio quei due azzurri che il pittore cerca spasmodicamente di fondere, quei due azzurri che non si stanca mai di dipingere perché allo sguardo si offrono “in perenne divenire”.
Cosa vede nella Sicilia di ieri, di oggi e di domani?
«La Sicilia di ieri era un mondo che cresceva, pieno di speranza e carico di futuro. Mai ipotizzabile, per carità. Oggi però il domani è un’incognita negativa. Magari non sarà così… Chissà. E’ un periodo storico piuttosto buio. Si dà tutto per scontato, saputo e vissuto. L’oggi si prende, ma non si assapora. Finisce così per avere un senso quando è già ieri. E te ne accorgi adulto. La consapevolezza della vita apre spiragli che con l’età modificano i punti di vista. Forse, bisognerebbe nascere vecchi».
Incontrare Piero Guccione è come fermare il tempo. Vestito d’arte, con un pantalone da lavoro che potrebbe essere un quadro, si sposta con un’auto che sembra non guidare. Il ristorante per la colazione non è ricercato. «E’ comodo, a portata di mano e si mangia bene». Sceglie cibi che non appesantiscono e gli consentono di lavorare. «Mattina e primo pomeriggio sono gli orari migliori per la luce». Il dialogo scorre veloce e spazia dal periodo romano al ritorno in Sicilia, agli oltre trent’anni trascorsi con Sonia Alvarez. «Siamo tanto diversi eppure abbiamo in comune quel tanto che ci ha permesso di essere ancora oggi insieme. Fare lo stesso lavoro aiuta molto a capirsi. Stessi tempi stessi ritmi. Anche se lei dipinge prevalentemente interni e io esterni… siamo complementari». E la differenza salta agli occhi varcando la soglia dello studio. A destra l’ordine, la precisione e il rigore, che nulla tolgono alla poesia della sua arte. A sinistra è Piero Guccione, il disordine dell’artista che non vuole si tocchi nulla della casualità che impone ogni attimo. Il tono pacato e rilassante, mentre apre gli scuri e il sole invade la prima stanza, si schiarisce la voce. «La mattina la mia voce è migliore, nel pomeriggio scende un po’ di tono. Non so perché».
Seduto su una sedia che potrebbe essere una delle innumerevoli tele sparse nel suo studio, avvolge il tabacco in una cartina. «Fumo soprattutto quando lavoro. E anche Sonia», dice con la consapevolezza di chi sa che dovrebbe smettere. Una stanza dopo l’altra, e un numero imprecisato di tele sparse dovunque, fanno di quell’angolo di lavoro una mostra in continua evoluzione. «Mi spiace, non ho molto da farti vedere, mancano parecchi quadri che ho già mandato a Milano».
Il 18 gennaio inaugura una personale, l’ennesima, in una delle più importanti città italiane. Milano, una città che avrebbe potuto vivere. Ma non dipingere. «Sì, avrei potuto vivere anche a Parigi o a New York. Non mi sono mai pentito di essere tornato qui. E, sinceramente, non vorrei essere in nessun altro posto». Qua e là sono dipinti abbozzati, piccoli mucchi di tubetti di colori ricoprono tutte le superfici utili. E un cavalletto vuoto. Accanto, a terra, un olio orizzontale in cui una sottile striscia di azzurro fa capolino oltre il giallo di un campo ucciso da una distesa di nero. Sono sacchi di plastica e rifiuti. Non è certo l’ambiente che esprime e d’istinto respira il Guccione di mare e cielo. «C’è quello che vedo». E’ spazzatura abbandonata. L’artista non capisce, l’uomo non giustifica.
Lo sguardo cade su altri due cavalletti con due tele dove gli azzurri e un blu notte segnano l’inizio di un’emozione. «Sto lavorando a un trittico – dice indicando quello che diventerà un cielo stellato -. E devo finirlo in tempo per la mostra di gennaio. Talvolta mi capita di cominciare un quadro, sospenderlo, tornarci e magari completarlo un anno dopo, quando mi viene…». Un movimento repentino della mano che ruota le dita e un sorriso indicano una parola che, se esistesse, sintetizzerebbe sghiribizzo, fantasia, ispirazione. E forse nulla più dei bozzetti e degli schizzi tutt’intorno, riuscirebbe a rendere meglio visibili istinto, emozioni, indignazione.
Un mosaico. Toglierne un pezzo sarà difficile.
«Non tengo nulla per me. Del resto quello che va in mostra deve essere in vendita. Qualche quadro l’ho ricomprato».
Ricomprato, certo, perché rifatto non sarebbe mai uguale. La vita non si rivive, nemmeno per un attimo. E lavorare è un’evoluzione continua. Non stanca?
«Affatto. Ho sempre lavorato con passione, con il tempo il mio lavoro è diventato più importante. Adesso non riesco a pensare di fare a meno di dipingere».
Gli occhiali sulla fronte e le mani che spaziano lentamente, senza fretta, rompono l’aria immobile del pomeriggio. Piero Guccione, tra pennelli e colori, parla di sé, della sua vita e del suo lavoro senza remora, tranne a ridurre e pesare immediatamente le parole quando avverte la domanda. La sua naturale discrezione lo spinge a non ritenersi padrone di verità. «La verità è la mia, è la tua. Ognuno ha una propria verità. A parole. Ma vivere la verità è difficile». Diventa cauto, non vuole essere frainteso. E’ un attimo. Poi, il dialogo torna a uno scambio di opinioni che vede i ruoli mescolati. Poca televisione, giornali quanto basta. Il silenzio della campagna supera ogni evento. «In fondo ognuno di noi ha dentro il proprio mondo. Per fortuna. Sarebbe terribile vivere da spettatori». La sigaretta finisce a terra, spenta. Piero Guccione segue il suo pensiero.
«Vedi dove stiamo andando?» La domanda è di Marco Goldin. «Non sarò originale! Ma credo davvero verso un mondo che non vorrei abitare». Era il 1998. E Piero Guccione non ha cambiato idea.

 

 

Ph. Luigi Nifosì